MILANO – Limitazioni orarie se non addirittura chiusura totale nelle zone rosse: i bar italiani stanno accusando la seconda ondata senza più le energie già impiegate per risollevarsi dalla prima. Si potrebbe pensare a fatturati, a dipendenti senza lavoro: certo, la parte economica esiste, ma c’è anche quella culturale. Sì, perché i bar italiani non sono solo spazi fisici, ma anche luoghi di incontro, dove è promosso lo scambio intellettuale e sociale. Cosa succede se si toglie questo al Paese dell’espresso? Leggiamo una riflessione di Luca Iaccarino sul tema dal corriere.it.
Bar italiani, un tratto culturale messo a rischio
Fino a che punto l’Italia rimane l’Italia se le togli le cose che la rendono unica? L’Italia sarebbe l’Italia senza i palazzi barocchi? Senza gli artigiani? Senza i piccoli borghi? Senza il teatro? E, soprattutto: cosa sarebbe l’Italia senza i ristoranti? Senza le trattorie? Senza i bar? Da quando è iniziata la pandemia e i pubblici esercizi sono stati travolti da lockdown e coprifuochi, amministratori e opinione pubblica si sono concentrati sull’enorme urto che questa situazione produce sull’economia e sul lavoro: un settore che genera 86 miliardi di fatturato è in ginocchio, gli analisti prevedono chiusure per decine di migliaia di insegne, perdita del lavoro per centinaia di migliaia di persone. Quello economico è certo il dramma il più pressante, ma ne seguirebbe un altro ugualmente grave: la perdita culturale.
Bar, trattorie e ristoranti (ulteriormente penalizzati dall’ultimo Dpcm) sono un tratto distintivo del dna italiano
Un cromosoma di quelli senza i quali l’organismo non è più lo stesso. Bar, trattorie e ristoranti definiscono l’Italia e, di conseguenza, la sua rappresentazione: non vivremmo allo stesso modo se non esistessero e non esisterebbe nessun «Italian Way of Life» senza questa triade. Il bar, innanzitutto. Cosa definisce un paese — l’«unità minima della civiltà» – in Italia? Un paese italiano è tale se ci sono tre cose: una piazza, una chiesa, un bar.
L’agorà, il tempio, e l’otium. Senza un bar un paese non è un paese, è un borgo, un grappolo di case, ognun per sé. Il bar è il seme della vita pubblica italiana e non per niente si chiamano «pubblici esercizi», perché mettono assieme le persone, trasformano la somma degli individui in società.
I «caffè» sono nati in Turchia, sono diventati grandi a Vienna, poi nel 1720 ecco il Florian a Venezia, ma è a fine Ottocento che il caffè si fa pop e arriva il Bar (Firenze, 1898, nasce il Banco A Ristoro, giocando con la parola inglese). Da allora il bar diventa uno dei cuori della costruzione dell’opinione pubblica, le «chiacchiere da bar» sono il polso del paese, i chili di caffè diventano l’unità di misura dello sviluppo economico di un quartiere.
Poi la trattoria, l’Italiana più famosa, assieme alla Loren e alla Ferrari
I quadretti rossi e bianchi, il bottiglione, il calore: dietro la rappresentazione bidimensionale che ha fatto il giro del mondo si nasconde una vastità di tipologie di esercizi che fanno pranzare i lavoratori italiani. La trattoria è l’Italia del boom che lascia le campagne per andare a lavorare nelle fabbriche, negli uffici, dopo millenni trascorsi a mangiar cacio nei campi o tra le capre. Rifocillarsi lontano da casa è cosa antica — già i romani avevano i thermopolium — ma è dal Dopoguerra che la trattoria racconta l’Italia che si pasce e cresce, popolare ma volitiva.
La parola viene dal francese, «traiteur», colui che tratta il cibo, ma Italians Do It Better ed è di qua delle Alpi che la trattoria diventa uno stile di vita. Che dice una cosa straordinariamente democratica: le cose buone sono per tutti, non per ricchi. In trattoria bastano poche lire per sentirsi signori, almeno un po’. La trattoria è identità, appartenenza regionale (non esiste un’univoca «trattoria italiana», esistono le «trattorie italiane», tante quanti i campanili e le cucine tipiche). E poi la trattoria e l’osteria significano vino. E diamine se il vino non definisce la civiltà italiana.
Infine il ristorante
Il ristorante è la modernità. È la cucina che esce dalle corti, dalle sale private dei Savoia e dei Borbone, e va incontro alla borghesia ottocentesca, quella degli industriali e dei motori, dello sviluppo e di un Paese che da rurale diventa fabbrica. Il ristorante è Camillo Benso Conte di Cavour che ha il tavolo riservato a Del Cambio – fondato nel 1757! – e che da quello governa un’Italia appena nata, scrivendo note per il Re mentre mangia un agnolotto. Attorno ai tavoli dei ristoranti sono stati stipulati i più importanti accordi economici e politici di questo Paese, sono nati i capolavori: Andreotti che ordina (in tutti i sensi) al San Souci a Roma; Fellini che disegna i bozzetti alla Cesarina, in via Veneto; le salette riservate per imprenditori e trattative.
E anche tutti i momenti di svolta della storia minuscola di ognuno di noi, delle nostre privatissime vite, sono sanciti al ristorante: la dichiarazione di matrimonio e la cresima, il diploma e il compleanno, la promozione e la pensione. Il grande ristorante classico è potere e cerimonia, quello contemporaneo è uno dei luoghi italiani in cui ancora si fa ricerca, innovazione, internazionalizzazione: Massimo Bottura che chiacchiera con Alfonso Cuaron, Niko Romito che costruisce ponti (gastronomici) con l’Oriente. Salvare bar, trattorie e ristoranti dunque non è esclusivamente una questione di pil e di posti di lavoro. È una faccenda di identità: bar, trattorie e ristoranti sono colonne del nostro modo d’essere, di stare insieme. Che Italia sarebbe senza di loro?