Dall’agorà ai coworking, dai diner di Tarantino ai parchi urbani: ecco come l’ibridazione tra fisico e digitale ridisegna gli spazi dell’incontro. L’articolo di Ludovica Proietti per il portale Elle Decor spiega perché progettare ancora luoghi di relazione è una necessità per la nostra società. Di seguito riportiamo un estratto dell’articolo.
L’ibridazione tra fisico e digitale nei bar
MILANO – Nel suo saggio The Great Good Place (1989), il sociologo statunitense Ray Oldenburg definisce i terzi luoghi come quegli spazi informali che si collocano tra casa e lavoro – bar, caffè, librerie, piazze – fondamentali per il tessuto sociale e la costruzione di comunità. Spazi sempre esistiti, dall’origine dell’uomo: l’agorà, per i greci, era il posto dove si svolgeva davvero la vita della comunità, così come nella Londra dell’Illuminismo le coffee houses sono diventate vero fulcro del cambiamento sociale.
I cafè del primo Novecento, le discoteche e i circoli negli anni Sessanta, i centri sociali nei Novanta: tutti terzi luoghi capaci di generare dibattito e di essere fulcri di piccoli moti della società. In alcune culture, anche parrucchieri, saloni di bellezza, barbieri diventano terzi luoghi. Luoghi di scambio, di confronto, di appartenenza, dove lo spazio dell’abitare non è mai neutro, ma facilita – plasma o ostacola – le relazioni.
In un’epoca in cui il digitale modifica abitudini e spazi, la riflessione sul concetto di terzo luogo si riattualizza, coinvolgendo anche il mondo dell’architettura e del progetto: come si disegnano oggi gli spazi di relazione? E quali sono i nuovi ambienti ibridi che funzionano da snodo tra fisico e virtuale?
Sicuramente abbiamo imparato a riconoscere i terzi luoghi anche da come venivano disegnati. I bar avevano le loro sale da biliardo mentre i pub banconi e sgabelli alti. Li abbiamo visti diventare icone nel mondo del cinema e della tv: pensiamo al Korova Milk Bar di Arancia Meccanica, il vero covo della banda di Alex DeLarge.
La latteria più distopica del grande schermo, anche fulcro narrativo. Lo sfondo nero, le scritte bianche morbide come gocce di latte, i tavolini a forma di corpo di donna, le luci intense sono tutti elementi di design che giocano un ruolo fondamentale nella dimensione dello spazio.
Le statue di donne nude che servono latte non sono solo scenografia: sono una dichiarazione. Ispirate alle opere di Allen Jones – che però rifiutò l’invito di Kubrick – vennero realizzate da Liz Jones su commissione. Corpi femminili trasformati in oggetti d’arredo: un’estetica disturbante, che racconta la visione del regista sull’erotismo come proiezione di un futuro iper-pop, dove la provocazione diventa norma.
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