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Bancarotta e ritorno: vita, morte, rinascita del marchio Peyrano

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Cioccolato
Dopo le vicissitudini legate alla gestione Maione
i Peyrano sono riusciti a riprendere in mano la storica cioccolateria
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09/10/2015
CLAUDIO LAUGERI
Giacca scozzese, pullover blu e cravatta bordeaux, capelli bianchi pettinati all’indietro e occhi verdi limpidi come le parole che escono dalla sua bocca. Giuseppe Peyrano Pedussìa, classe 1933, racconta davanti ai giudici la storia dell’azienda che porta il nome della sua famiglia, trascinata nel baratro dalla gestione di imprenditori napoletani finiti a giudizio per bancarotta fraudolenta. Sono Mario e Mariella Maione, padre e figlia, imputati del crac con Augusto Forenza, ragioniere e loro uomo di fiducia.

La storia
Nel 2002, la famiglia Peyrano era divisa sul futuro dell’azienda. Fratello e cognata di Giuseppe volevano vendere le quote. Servivano risorse economiche, arrivate con un’asta. «Un avvocato di Milano ci ha consigliato il “gruppo Maione”» risponde «monsiù Peyrano» alla domanda del pm Giancarlo Avenati Bassi. L’inizio della fine. E’ il 2002. Ancora: «Pensavamo che quella famiglia risolvesse i problemi come avremmo fatto noi. Anche se erano più grandi, avevano la pasta di Nola, il Pastificio Russo, un’industria vernici, un laboratorio di ricerca medica, posteggi a Napoli. Di queste attività, ho visitato soltanto il Pastificio Russo, l’unica per la quale avevo qualche competenza».
I rendimenti della società colano a picco. E il ruolo dei Peyrano viene ridimensionato al 49 per cento, attraverso una ricapitalizzazione per ripianare i debiti ad opera dei Maione. «Mi sono accorto che qualcosa non andava quando i fornitori mi dicevano di non essere stati pagati» spiega il piemontese d’altri tempi. Sempre lui, al pm che lo chiama «dottor Peyrano» risponde «non sono dottore, solo dottore in cioccolato». Un romantico, che sognava «un matrimonio tra buona pasta e buon cioccolato». Un uomo così ha capito soltanto dopo come i Maione erano riusciti a uccidere il sogno. Un «giro» di fatture insospettisce lui e i figli, scrivono alla procura, ma non c’è materia per andare avanti.

La bancarotta
La caduta libera di Peyrano finisce con il fallimento, nel 2010. I debiti superano i due milioni. Una voragine per un’azienda di quelle dimensioni. In aula, il curatore fallimentare e il consulente del pm raccontano di assegni a garanzia di crediti mai incassati, nonostante gli artigiani del cioccolato avessero bisogno di quei soldi come l’aria. E poi, ci sono fatture per soggiorni a Madrid e Santa Margherita Ligure, notti all’Hilton, pagamenti di ormeggi per imbarcazioni, affitti di garage, la caparra di 54 mila euro per un immobile mai acquistato e persino la sponsorizzazione da mezzo milione di euro a una squadra di Basket a Napoli. E qui, l’amministratore era lo stesso Forenza che metteva mano e becco nei conti della «Peyrano», passata da «srl» a «spa» controllata dai Maione. Dopo il fallimento, però, il destino ha chiuso il cerchio della Peyrano: è tornata nelle mani di Giorgio Peyrano e della moglie Bruna, che avevano incassato l’assegno dopo l’asta e hanno deciso di rimettersi a creare cioccolato. Il lieto fine ci voleva.

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