mercoledì 30 Ottobre 2024

Kent Bakke, presidente onorario de La Marzocco: “Il prototipo del macinacaffè Swan è nato oltre 17 anni fa, è un progetto importante”

Bakke: "Sono molto orgoglioso di come Swan è stato realizzato: ha ottenuto ottimi risultati. É sorprendente la qualità del caffè che ne esce e di come questa qualità impatti nella tazza. Per me questo risultato conferma la nostra presenza nel settore della macinazione del caffè, attesta che siamo dei produttori seri e che ascoltiamo i nostri clienti. E questo è il messaggio importante"

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Kent Bakke, oggi presidente onorario di La Marzocco, ha accompagnato la grande crescita dell’azienda con sede a Scarperia (Firenze), ispirando continue innovazioni che hanno influenzato l’intero settore del caffè. Abbiamo incontrato Kent Bakke durante il suo ultimo soggiorno in Italia per parlare dei segreti che accompagnano la nascita del macinacaffè Swan.

Perché La Marzocco, con la sua grande esperienza legata alle macchine da caffè espresso professionali e da casa, oggi produce anche macinacaffè?

“Forse questo può sembrare un cambiamento, ma io lo vedo solo come una parte della storia dell’azienda. La trovo un’evoluzione naturale e fisiologica, perché quando io e i miei amici e poi soci, abbiamo conosciuto La Marzocco alla fine degli anni ’70, nello stabilimento si producevano macchine da caffè espresso, ma anche macinacaffè. Stavano ancora vendendo il Vulcano originale. Oggi produrre macinacaffè fa parte della strategia e dell’interesse dell’azienda.

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É importante che la Marzocco possa offrire una propria soluzione ai baristi e agli home barista, un prodotto che rispecchi il proprio stile e sia la propria rappresentazione del macinacaffè per espresso.

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Kent Bakke con parte del team che ha progettato il macinadosatore Swan durante la consegna del primo prototipo realizzato a La Marzocco, Scarperia (immagine concessa)

Mi pare che all’epoca stessero costruendo il macinino con un’azienda che poi chiuse o decise di abbandonare il progetto. Forse La Marzocco all’epoca non aveva un volume di affari molto importante, perché anche l’azienda era molto piccola alla fine degli anni ‘70.

Però ho sempre continuato a pensare che avevamo già una certa esperienza con la macinazione e in particolare un interesse a fornire ai nostri clienti una soluzione La Marzocco da affiancare alla loro macchina da caffè espresso”.

Ha citato la Marzocco di fine anni ’70. Ma come era? E come siete arrivati a un’azienda così piccola?

“Finito il college ho lavorato in un chioschetto che vendeva hamburger e con i miei amici ci siamo detti che avremmo potuto aprire qualcosa del genere. Prendemmo una tavola calda in Pioneer Square, nella zona vecchia di Seattle.

Abbiamo imparato presto quanto sia impegnativo avere un ristorante e una caffetteria. Nella tavola calda avevamo trovato anche una macchina da caffè espresso. Io non sapevo nulla di caffè e di come si facesse un espresso, credo fosse la prima volta che ne vedevo una. Ma iniziai ad armeggiarci e imparai a farla funzionare.

Ho girato un po’ di caffetterie come se fossi un tecnico e sapessi fare assistenza sulle macchine e così ho imparato qualcosa di più.

Per quello a un certo punto abbiamo pensato che invece di fare manutenzione sulle macchine dovevamo importarle e venderne di nuove. Così decidemmo di andare in Italia. Eravamo io, Asa e Barbara, la mia socia all’epoca. Scoprire La Marzocco fu un’esperienza decisiva, fondamentale.

Non credo di averlo realizzato immediatamente. Sì, sapevamo che stavamo andando un po’ all’avventura e quindi ci saremmo trovati in posti sconosciuti e avremmo incontrato persone che neanche sapevamo esistessero. Probabilmente ai loro occhi sembravamo una tribù di hippy.

Era un’officina davvero piccola, e incontrammo Piero, suo padre e suo zio e le altre persone che c’erano, credo ci fossero forse una decina di operai.

Guardandoti intorno potevi vedere come venivano fatte le cose, come lavoravano. Era totalmente diverso da qualsiasi cosa avessi visto fino ad allora ed è stato come essere un bambino in un negozio di caramelle.

La dedica personalizzata per Kent Bakke (immagine concessa)

Ci è voluto un anno per vendere la nostra prima macchina ed uscire dal business del ristorante, che per quanto mi piacesse non era proprio la mia vocazione. Mio padre non credeva molto in questa mia scelta, anche se mi ha sempre supportato.

Era un imprenditore, ma quello che stavo facendo era troppo nuovo e lui non riusciva bene a capirlo. Io ho perseverato, pensavo solo alle macchine da caffè espresso italiane e con la convinzione che stavo facendo la cosa più corretta che potessi fare. Quando dicevo “lavoro con le macchine da caffè espresso” qualcuno mi chiedeva se non fosse il momento di trovarmi un vero lavoro”.

E quindi lavorava con le macchine da caffè espresso e anche con i macinini.

“Sì. Penso che il progetto successivo di un macinino sia stato realizzato tra la metà e la fine degli anni ’90, quando lavoravamo con Starbucks negli Stati Uniti, e loro stavano cercando soluzioni per ridurre l’impatto che i movimenti ripetitivi hanno sulla salute del barista. Il barista deve essere veloce e costante nel suo lavoro, e praticamente ripete gli stessi gesti tutto il giorno.

A Seattle abbiamo sviluppato lo Swift e quel progetto per me era la prova che stavamo contribuendo con qualcosa di molto significativo al settore della macinatura del caffè, e questo era importante: poter proporre innovazioni uniche a La Marzocco, ascoltare le esigenze del cliente e dargli una soluzione di qualità che non compromettesse il prodotto, e ancora più importante, la qualità del caffè espresso, ma aiutasse baristi e aziende a continuare a migliorare e mantenere la qualità di ciò che era nella tazza”.

E come è andata con questo macinino?

“Inizialmente, avevamo selezionato la tecnologia di un’azienda che proponeva una soluzione unica per la macinatura e prevedeva quello che ora chiamano un “macinino ibrido”: aveva prima una macina conica in modo da ridurre la dimensione dei chicchi in particelle più piccole, poi terminava la macinazione grazie a una macina piatta.

Tutto è stato incorporato insieme, e quella è stata la nostra scelta originaria per lo Swift: ne abbiamo anche costruito alcuni prototipi. Ma avevamo un problema di controllo qualità per il meccanismo di macinatura. Alla fine, quando siamo entrati in produzione, avevamo una soluzione che permetteva di avere una campana doppia dove poter mettere oltre alla miscela standard anche il decaffeinato o una seconda miscela o qualunque cosa uno volesse servire al bar.

A quell’epoca lavoravamo con David Schomer di Espresso Vivace e gli avevamo procurato uno di questi macinacaffè ibridi prodotti in Italia. Gli era davvero piaciuto, tanto che lo aveva usato per molti anni, finché intorno al 2004 ci siamo incontrati e mi ha detto che le macine stavano iniziando a consumarsi ma quel modello ibrido non era più in produzione.

Mi disse che aveva alcune idee specifiche e precise su cosa pensava avrebbe risolto alcuni problemi di staticità e cosa sarebbe stato meglio per il caffè.

Così abbiamo deciso di avviare un progetto su questo, che si è trasformato in una curva di apprendimento molto, molto lunga e che è scesa molto in profondità sulla macinazione e che alla fine è culminata in Swan. Ma nel mezzo ci sono state parecchie sfide”.

Quindi è stato un progetto che, come altri de La Marzocco, ha raccolto i feedback di chi chiedeva un’attrezzatura migliore?

“Sì. E a farne parte fin dall’inizio ci sono stati John Blackwell e Jacob Ellul Blake. Jacob ha presentato un primo prototipo di questo macinacaffè alla SCAA di Long Beach nel 2007 e ha ideato alcuni dei concetti originali da cui siamo partiti.

Anche Jens Brine dalla Svezia ha trascorso un bel po’ di tempo su questo progetto e quindi ci sono stati molti prototipi, abbiamo affrontato percorsi abbastanza tortuosi per risolvere problemi particolari e abbiamo dovuto superare soluzioni che non sempre funzionavano. Ci è voluto molto tempo, molta sperimentazione, molto apprendimento e molta ricerca per arrivare al punto in cui finalmente abbiamo avuto Swan.

Quindi tecnicamente non era proprio una mia idea, ma era un progetto che ho ritenuto che fosse molto importante per La Marzocco.

Era fondamentale avere una propria soluzione di macinazione con tecnologie che potessimo controllare e migliorare. Per me fa parte della nostra evoluzione e della nostra filosofia fare tutto ciò che possiamo come produttori per fornire attrezzature che aiutino a mantenere o migliorare la qualità di ciò che i nostri clienti servono in tazza.

Apprezzo che mi venga dato il merito del risultato raggiunto, ma io ci ho messo soprattutto la mia determinazione (o testardaggine) nel voler andare avanti. Il grande merito lo dobbiamo dare alla squadra in Italia per la loro perseveranza, perché è stato un processo veramente lungo. Non è merito mio, io ho dato solo qualche idea, ma ci sono volute davvero molte persone che hanno trascorso sul progetto molto tempo e non si sono arrese”.

Ma veramente si parla di un processo durato 17 anni?

“Sì, forse anche di più. Abbiamo iniziato a Seattle, ma poi, poiché non avevamo più la fabbrica nella città, abbiamo coinvolto le competenze del dipartimento Ricerca e Sviluppo che erano presenti in fabbrica in Italia. Mentre lavoravamo con Jens, che viveva in Svezia, quindi più vicino all’Italia, lui passava molto tempo in fabbrica a lavorare. Col tempo si è creato un team di ingegneri.

Nel 2000 avevamo Roberto Bianchi come unico ingegnere, poi abbiamo iniziato ad assumere nuove persone e si sono aggiunti anche nuovi progetti. In più, dato che il miglioramento prodotto continuava a essere la parte più importante di ciò che stavamo facendo, dovevamo strutturarci e organizzarci. È stato uno sforzo cooperativo, un sogno a lungo termine e anche un esercizio di testardaggine, a lungo termine;  ci sono volute molte persone, una grande squadra per arrivare a questo punto.

Sono molto orgoglioso di come Swan è stato realizzato: ha ottenuto ottimi risultati. É sorprendente la qualità del caffè che ne esce e di come questa qualità impatti nella tazza.

Per me questo risultato conferma la nostra presenza nel settore della macinazione del caffè, attesta che siamo dei produttori seri e che ascoltiamo i nostri clienti. E questo è il messaggio importante.

Voglio dire, i macinini sono importanti quanto le macchine per caffè espresso, se non di più, ma le informazioni, la base di conoscenze disponibili su questa tecnologia è molto limitata. Sembra facile dall’esterno, finché non inizi davvero a lavorarci. È un processo molto impegnativo e complesso e penso di poter dire che non siamo arrivati ​​ancora, siamo forse a metà del viaggio, ovunque ci porterà, perché c’è sempre qualcosa in più da imparare”.

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