LECCE – “L’espresso è un simbolo della nostra cultura, un vero e proprio rito, e deve restare accessibile a tutti”. Antonio Quarta, torrefattore pugliese, è fermo nella sua convinzione: l’aumento del costo della tazzina di caffè va bloccato. Se così non fosse, l’espresso perderebbe quel suo ruolo di rito quotidiano popolare, mettendo a rischio una tradizione profondamente radicata nella cultura italiana e causando notevoli ripercussioni sull’economia dell’intera filiera del caffè.
Sebbene il prezzo della materia prima sia cresciuto, i torrefattori chiedono un rincaro del caffè al bar. Ma cosa ne pensa Antonio Quarta?
“Credo che l’aumento del costo debba riflettersi sul prezzo della miscela, non sempre sulla tazzina al bar. Mi spiego meglio: i paragoni devono essere omogenei, se c’è il minimo accenno a una siccità nel Vietnam o un alluvione in Brasile non si dovrebbe parlare subito di aumento del costo della tazzina.
Queste dinamiche di comunicazione, a mio avviso, dovrebbero finire, perché non è detto che l’aumento del costo del caffè verde si traduca automaticamente in un rincaro sproporzionato sulla tazzina di dieci centesimi alla volta.
L’incongruenza sta nell’aumentare la miscela di pochi euro quando con 10 centesimi il bar incassarebbe oltre 14 euro ogni chilo di caffè”.
L’espresso, insomma, diventerebbe un vero e proprio lusso.
“Oggi il caffè al bar costa già 1 euro e 20 centesimi, una cifra considerevole per molti italiani. Come si può pensare di aumentarlo ulteriormente a 1,30, o persino a 1,50 euro? Il caffè al bar è un’abitudine quotidiana: un simile rincaro costringerebbe i consumatori a spendere oltre 40 euro al mese per continuare a concedersi questi pochi secondi di piacere.
Come potrebbero operai che guadagnano 1.300 euro al mese, o pensionati e titolari di sussidi con redditi di gran lunga inferiori a 1.000 euro, permettersi ancora quest’abitudine quotidiana? Oggi abbiamo già oltre 8 milioni di persone che non si possono permettere il lusso di entrare al bar per un espresso, nel Paese dell’espresso…”.
E poi c’è la questione della scomparsa delle monete da 1 e 2 centesimi… e spesso anche da 5.
“Perché l’eliminazione dei centesimi ha generato una spinta inflazionistica, con arrotondamenti sempre verso l’alto nel settore della somministrazione in genere. Questo ha causato rincari generalizzati, compreso quello del caffè. Un aumento di 2 centesimi porterebbe un ricavo di circa 3 euro per chilo di caffè al barista, ma con l’aumento di 10 centesimi – ripeto – il ricavo arriverebbe a oltre 14 euro per chilo: una cifra eccessiva. Paesi come l’America e il Regno Unito, che hanno mantenuto i centesimi, hanno saputo preservare la forza delle loro valute. Al contrario, i nostri governi hanno preferito puntare sulle banconote da 500 euro. Chissà perché.”
Quarta, alcuni torrefattori, tuttavia, giustificano il rincaro con il fatto che all’estero l’espresso costa molto di più.
“Anche qui i confronti devono essere omogenei, altrimenti si rischia di fare ulteriore confusione. È vero che l’espresso all’estero costa di più, ma perché il tipo di somministrazione è diverso. In Italia consumiamo il caffè al banco, mentre all’estero viene servito esclusivamente al tavolo. Questo presume costi aggiuntivi del servizio. E poi non dimentichiamo che all’estero salari e redditi sono in genere più alti, e il consumo di caffè nei bar è molto inferiore rispetto all’Italia.
La vera domanda è: vogliamo che il caffè al bar rimanga un prodotto popolare o che diventi un lusso? Con la tazzina a 1,30 euro siamo già sulla seconda strada. Senza contare che bisognerebbe discutere della qualità del prodotto”.
La dinamica degli aumenti della tazzina sarebbe allora un danno per tutti.
“L’Italia è la patria dell’espresso, una bevanda che incarna socialità e condivisione. Ma come potrebbe continuare ad esserlo se una grande fetta della popolazione non potesse più permetterselo? Non credo sia possibile. Per questo mi oppongo all’idea di ulteriori aumenti. E poi parliamo anche di qualità: oggi una tazzina di caffè scadente costa quanto una di alta qualità. Questo dovrebbe essere inaccettabile per il consumatore”.
Quali sono le altre problematiche che riguardano la tazzina?
“Oggi il nostro settore della somministrazione è indebolito da una liberalizzazione selvaggia, senza regole, che ha fatto proliferare incontrollatamente migliaia di punti vendita.
Sappiamo bene che un mercato senza regole non è un mercato sano, ma si preferisce ignorare la questione contravvenendo alla regola fondamentale della domanda e dell’offerta che fa ruotare l’economia: si assiste infatti ad un aumento sproporzionato dell’offerta con una domanda in diminuzione.
In aggiunta ci sono costi altissimi legati alle attrezzature per la preparazione e la somministrazione del caffè che forniamo in comodato ai nostri clienti.
I consumi dei singoli bar sono diminuiti, tenendo conto che non abbiamo neppure recuperato quelli pre-Covid, e i produttori di macchine per l’espresso continuano a lanciare sul mercato modelli sempre più sofisticati, che arrivano a costare quanto un’automobile, con spese di manutenzione elevatissime: in questo senso faccio appello ai produttori di avere clemenza, ovvero di non presentare alla prossima fiera di Rimini nuovi modelli sempre più costosi e intergalattici.
Quindi l’aumento delle miscele non è esclusiva solo della dinamica dei prezzi della materia prima, bensì anche delle quote di ammortamento e dei costi di manutenzione sempre più onerosi delle suddette attrezzature.
Infine mi domando: perché il caffè, che è considerato un bene di largo consumo, deve scontare un’Iva del 22 per cento, quella dei beni di lusso, e non del 10 dei beni di largo consumo, appunto, aumentando i prezzi per i consumatori, sia al bar che in famiglia? Sarebbe bene che su tutti questi aspetti noi operatori del settore ci confrontassimo per tutelare e salvaguardare il nostro stesso interesse”.