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Anthony Capella e il suo romanzo cult «Il profumo del caffè»

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MILANO – Presentato domenica, accompagnato da una degustrazione di caffè, il romanzo cult «Il profumo del caffè» (Neri Pozza) di Anthony Capella – FOTO – (che spesso ha usato il cibo come motore delle sue opere). Presenti l’autore e Andrej Godina.

Si tratta di un long seller che continua a raccogliere lettori con le vicende del giovane Robert Wallis che da una Londra sul finire dell’epoca vittoriana va in Africa per coltivare caffè, fondamentalmente per amore.

Vi proponiamo un’intervista con l’autore tratta dal Corriere della Sera.

Come mai ha deciso di scrivere romanzi partendo da temi gastronomici?
«Il cibo è un tema archetipico, lega tante storie antiche dell’uomo, ma credo che influenzi ancora oggi una vicenda in almeno due modi: il primo è che la storia diventa una favola. Dopotutto siamo cresciuti ascoltando fiabe, come quella di Hansel e Gretel, dove la strega vive in una casa di pan di zenzero. Il secondo è che rende la storia più sensibile, quasi possa essere percepita con più sensi, come in un’esperienza organolettica. Quando ho iniziato a scrivere “Il profumo del caffè” volevo ritrovare la sensualità e le sensazioni che avevo provato leggendo “Seta” di Alessandro Baricco».

I suoi romanzi, come «Il pasticciere di corte», partono spesso da episodi storici: sono state difficili le ricerche per «Il profumo del caffè»?
«Ho impiegato due anni a scrivere il romanzo. Un anno di documentazione e uno di scrittura e ho svolto le ricerche su due fronti. Da una parte ho imparato ad apprezzare il caffè, studiandolo nei suoi aromi, affidandomi ad esperti come il francese Jean Lenoir, dall’altra, ed è stato più difficile, lavorando sulla ricostruzione storica. Ho comprato manuali di inizio secolo su come si coltivavano le piantagioni e ho deciso, quando i miei protagonisti vanno in Africa, di mandarli sugli stessi tragitti che fece il poeta Arthur Rimbaud quando andò in Abissinia a vendere caffè. Mi piace, dove possibile e anche se attraverso personaggi immaginari, ancorarmi alla verità storica, partire da lì per lavorare poi con l’immaginazione. A volte, chiaramente, devo mentire».

Ad esempio come?
«Nel romanzo, che è ambientato a cavallo tra 800 e 900, i miei personaggi bevono anche caffè espresso, che si diffuse negli anni 30 e 40. Nella loro epoca c’erano solo dei prototipi di macchine che usavano il vapore per fare il caffè, ma non potevo rinunciarci, dovevano poterlo bere comodamente».

Come mai la cultura del cibo è così importante?
«Perché non si tratta solo di mangiare, ma anche di raccontare cosa si mangia. Cucinare riguarda molto il concetto di comunità e spesso cucinare per qualcuno è un segno d’amore. In Etiopia, ad esempio, dove per servire il caffè si usa un’antica cerimonia, vi è il detto “Quando una donna prepara il caffè per un uomo, sta mostrando il suo desiderio”». «Uso il cibo nelle mie storie perché coinvolgano più sensi».

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