TRIESTE – Prosegue la nostra pubblicazione integrale delle trascrizioni degli interventi del Trieste Coffee Experts di quest’anno: in questo numero, vi proponiamo il contributo di Andrej Godina (Presidente Umami Area) intitolato: “Caffè sostenibile: l’importanza di aggregare una responsabilità sociale su tutta la filiera”.
Filiera del caffè: un percorso dall’origine alla tazzina da curare al meglio
Sono qui al Trieste Coffee Experts in doppia veste: come esperto di caffè -consulente- lavoro nei paesi di consumo, e come coffee farmer, perché da alcuni anni con alcuni soci abbiamo comprato una piantagione di caffè in Honduras.
Quindi mi sono ritrovato a fronteggiare quelle che sono le problematiche di coltivare caffè: farlo buono, e già lì è tutta un’impresa, e anche farlo sostenibile. Che è anche molto più difficile rispetto al farlo semplicemente buono.
Intanto, vorrei definire con voi che cos’è la sostenibilità. Almeno come la intendo io in questo intervento. Sostenibilità che può avere diverse definizioni e diversi ambiti di applicazione.
Ho preso la definizione del 1987 della World Commission for Environment and Development:
“Sviluppo sostenibile è lo sviluppo che risponde alle necessità del presente. Senza però mettere a rischio l’abilità delle generazioni future di rispondere alle proprie necessità“.
Quindi, applicato alla piantagione di caffè, per me avere uno sviluppo sostenibile nella mia piantagione significa dare risposta alle necessità dei farmer e delle persone che lavorano con me. Ma anche delle future generazioni, perché in realtà in questo momento tutti emigrano negli Stati Uniti e in Spagna.
Ciò che noi stiamo cercando di applicare ha come scopo quello di ottenere uno sviluppo economico sostenibile. Quindi dal punto di vista finanziario, uno sviluppo sociale, con un progetto sociale sulla comunità locale e uno sviluppo che protegge l’ambiente.
In realtà però quello si sta facendo diffusamente è impoverire il piccolo coltivatore di caffè.
In Italia oggi andare al bar a prendere un caffè è un atto di ingiustizia sociale. Questa forse è un po’ una provocazione, però in questo momento qui, a mio parere, per quello che sto vivendo, quando vado a prendere un caffè espresso al bar, ma anche quando lo compro dallo scaffale del supermercato, è ciò che compio.
In questo momento qui, gli operatori di settore lo sanno, il prezzo di borsa del caffè, da cui si fissa poi il prezzo a cui il coltivatore vende il suo caffè è assolutamente iniquo, ingiusto. Generalmente, il coltivatore non riesce a pagare le spese di coltivazione.
Un po’ come l’olio d’oliva: l’olio d’oliva prodotto in Italia sotto i 10 euro non è sostenibile.
Quindi ho fatto un calcolo dal quale risulta che più o meno il caffè della mia piantagione messo a disposizione di un torrefattore qui in Italia -quindi in store- deve costare circa 8 euro al chilo. Sotto quel prezzo, io come piantagione ci rimetto dei soldi.
In questi 8 euro c’è il prezzo pagato al produttore di caffè, che in questo caso è la mia società. Ma, per pagare gli stipendi di persone regolarmente assunte, costo del beneficio secco, costo di esportazione (il margine della ditta che esporta in questo momento il caffè), trasporto, margine per l’importatore.
Quindi, siamo in una filiera tradizionale del caffè.
In Honduras vivono circa 8 milioni di persone. Di cui 6 milioni sono in condizioni di povertà. All’incirca poco più di 2 milioni sono in condizioni di povertà relativa. Mentre quasi 4 milioni povertà estrema, che vuol dire che fanno difficoltà a procurarsi il cibo per sopravvivere.
Le zone di produzione del caffè, che è il maggior prodotto di esportazione dell’Honduras, sono le zone più povere del paese
Con Umami Area e con la fondazione Etea, una fondazione spagnola, e l’Università della Florida, abbiamo invitato Winston Stitt. Un ragazzo che è rimasto con noi in piantagione sei mesi, ha indagato quali sono le dinamiche di costruzione del costo di produzione del caffè per chilo che noi abbiamo in piantagione.
E ha sviluppato il cosiddetto green value tool che è un foglio Excel complesso che calcola quali sono i costi di produzione, di fertilizzazione; controllo delle malattie, costo degli stipendi. E quindi quale dovrebbe essere il costo di produzione al chilo di caffè esportabile in questa filiera.
All’interno cosa abbiamo visto?
Che in realtà rispetto ad anni precedenti il prezzo del caffè è diminuito, il costo di produzione è aumentato perché la coffee leaf rust, la ruggine del caffè, sta facendo disastri in Centro America e in altri paesi. Quindi il coltivatore di caffè spende di più in pesticidi e altri prodotti e anche in mano d’opera per controllare questa malattia.
Tanti alberi muoiono, quindi bisogna ripiantare alberi nuovi e quindi perdi due anni di produzione quando cambi un albero di caffè. E, infine, il cambiamento climatico: l’anno scorso per la prima volta, nella regione dove io ho la piantagione c’è stato un periodo molto lungo di siccità, mai verificatosi prima, che sta portando al fatto che non solo si produce di meno. Ma le piante stanno iniziando ad avere necessità di sistemi di irrigazione, cosa mai vista in centro America prima.
Quindi costi di investimento per irrigare, cioè costruire gli impianti e poi ovviamente anche irrigare
Questo è quanto riguarda i paesi di origine. Ma come possiamo fare per applicare quella sostenibilità, quello sviluppo sostenibile che ho citato prima anche nei paesi consumatori, in modo che abbia, però, una ripercussione anche sui paesi produttori?
Vi riporto una piccola case history che abbiamo applicato in Germania con un network virtuoso, cioè la fondazione Etea, di cui vi ho accennato prima, Umami Area Honduras e una ong tedesca che si occupa di formazione dei giovani con fondi della Commissione Europea, ma che è anche molto sensibile al tema della sostenibilità. E con una micro roastery che si chiama Agata, gestita da marito e moglie e quindi a conduzione familiare molto piccola, tostatrice piccola con un coffee shop e un e-shop.
Che cosa abbiamo analizzato della filiera?
Loro fino a poco tempo fa prendevano il caffè su una più che normale e tradizionale supply coffee chain, ovverosia: farmer che nella migliore delle ipotesi vende ad una cooperativa, se è socio ne ha una virtuosa ovviamente nelle vicinanze, altrimenti vende ad un intermediario, una sorta di strozzino che paga in contanti il meno possibile, gioca sul fatto che il coltivatore di caffè alla fine dell’anno ormai ha già consumato tutto il suo cash flow che aveva dall’anno prima e di conseguenza compra il caffè ad un prezzo ovviamente molto basso e poi lo rivende lui stesso a una cooperativa.
Dopo di che abbiamo l’esportatore, il trasporto, l’importatore, il roaster, il distributore, il retailer, fino ad arrivare ovviamente al consumatore.
Io ho sottolineato, forse anche in modo provocatorio, che questa catena così lunga applicata poi in un contesto di borsa merci che determina il prezzo che in qualche modo poi si paga il farmer, che comunque poi l’esportatore deve in qualche modo poi vendere. Questo caffè alla fine crea questo (impoverimento del farmer).
Quindi con loro che cosa abbiamo fatto?
Proviamo a rimodellare una filiera su piccola scala, dimostrando che si può fare qualcosa di diverso. In questo caso, abbiamo fatto visita al farmer, loro sono venuti nella mia piantagione hanno conosciuto Francisco Vieda e, al di là della mia azione, abbiamo contrattato insieme il prezzo di vendita del caffè.
Oppure, il roaster cosa può fare?
Comprare una piantagione di caffè per poi farla gestire al farmer. In questo caso, in questa filiera molto più corta, l’importatore e l’esportatore non spariscono perché sono comunque necessari in quanto garantiscono la qualità, organizzano la logistica, danno un servizio molto importante, ma diventano un venditore di servizio che è pagato il giusto, che poi può rientrare in una filiera di questo tipo che noi abbiamo considerato più fair.
Poi che cosa abbiamo fatto?
Abbiamo calcolato quello che per Agata e la micro roastery è la formazione del prezzo sulla filiera tradizionale, ossia farmer, costi logistica, tasse, roaster (la percentuale per Agata), costi di amministrazione.
In questo calcolo ovviamente ci sono anche i 2,19 euro che in Germania si pagano come tassa sul caffè tostato.
Nella nuova filiera, i numeri sul file Excel sono cambiati (aumentato il guadagno del farmer e diminuiti gli altri costi). Quindi abbiamo concretamente ottimizzato quello che è lo stesso prezzo di vendita (perché loro vendono il caffè sempre allo stesso prezzo) ma siamo riusciti a ridistribuire quel prezzo in modo differente.
Un altro concetto: essere socialmente responsabili. Abbiamo parlato di sostenibilità e ora vediamo un’altra case history in cui abbiamo cercato di praticare il concetto della responsabilità sociale, già lo facciamo in piantagione con Umami Area Honduras ma anche qui, nei paesi di consumo, e vi riporterò una case history italiana.
Intanto, cosa significa essere socialmente responsabili?
È un quadro etico che fa capire che un ente ha l’obbligo di agire per il bene della società nel suo insieme. Quindi, da un punto di vista etico abbiamo l’obbligo di lavorare in qualche modo pensando ai benefici che si possono dare alla società nella sua interezza.
Un’altra definizione che mi è piaciuta e che ricalca un po’ quello che vi descriverò dopo, ossia: trasformare il senso dell’azienda nell’obiettivo della stessa ad impegnarsi a comportarsi eticamente a contribuire allo sviluppo economico migliorando la qualità della vita dei lavoratori e delle loro famiglie, ma anche dell’intera comunità e della società nella sua interezza.
Quindi, quella che noi ci siamo presi come responsabilità è quella di lavorare per migliorare la qualità della vita dei nostri lavoratori in Honduras però poi ci siamo detti “non ci vogliamo fermare lì, come facciamo a fare qualcosa di questo tipo anche nel paese di consumo?”
Quindi abbiamo fondato, io sono socio insieme ad altri 3 soci, nel Mugello a Porto San Lorenzo, una piccola Srl che si chiama Anna Caffè Impresa Sociale, in cui abbiamo cercato di fare questo: per quanto riguarda la responsabilità sociale nei paesi produttori, acquistiamo caffè socialmente responsabile da Umami Area Honduras, quindi in qualche modo abbiamo acquistato la porzione di responsabilità sociale che già qualcun’altro fa in Honduras.
Però nel paese consumatore cosa abbiamo fatto?
Intanto abbiamo usato una forma giuridica nuova per l’ordinamento italiano, ovvero sia quella della Srl impresa sociale, quindi che non permette la ridistribuzione degli utili. Non è un’associazione perché comunque devi fare utili essendo una Srl ma non si possono dividere i dividendi.
E nella compagine societaria abbiamo una cooperativa sociale che si occupa nel Mugello di reinserimento lavorativo di giovani che sono disadattati dal punto di vista sociale.
È una cooperativa che opera nel comparto già da più di 20 anni e aiuta ad inserire nel mondo del lavoro centinaia di giovani. Quindi, in questo modo, abbiamo anche coperto quell’ultimo pezzettino di filiera per dargli un senso da un punto di vista di responsabilità sociale.
In questo momento qui grazie a quest’operazione Convoi, e poi è stato bello anche coinvolgere la Marzocco, visto che erano interessati a trovare sul territorio locale un qualcosa attraverso il quale anche loro potessero portare valore aggiunto alla loro azienda, in questo momento la start up sta aiutando 3 giovani ad imparare un lavoro e a reinserirsi nel mondo del lavoro.
Uno dei temi di questo Trieste Coffee Experts è quello della 4th Wave e allora nella mia presentazione, anche se esula un po’ dal tema e da ciò che ho detto fino ad adesso, un accenno allo specialty comunque ci voleva.
Parlando delle famose waves, al di là delle diverse definizioni, il termine sostenibilità non compare mai ed è una cosa su cui forse potremmo riflettere.
Allora a questo punto azzerare. Questo riprende quello che ho accennato forse in una delle prime slide dell’ingiustizia sociale che noi commettiamo, a volte, non sempre, nel prendere un caffè: questa è una pagina di un giornale della catena Aldi. Catena tedesca, giusto perché parlavamo di prezzi e di quello che si trova sul mercato, quello più interessante è questo: un chilo di caffè, 100% Arabica, fair trade, biologico, con la storia del produttore e della cooperativa. Se togliamo i 2,19 euro di tassa che in Germania bisogna pagare sul caffè tostato, fate voi i calcoli di quanto arriviamo al chilo.
E io mi chiedo: ma questo (il simbolo del Fairtrade) è veramente per il produttore un’operazione di prezzo giusto?
Considerando poi dalla mia esperienza di farmer quanto dovrebbe costare 1 chilo di caffè, oltretutto verde? O è un’operazione di marketing in cui si usa questo bollino?
Quindi per me, dopo questo breve intervento, vorrei dire:
Basta innanzitutto impoverire il piccolo coltivatore pagando il mero prezzo di borsa. Bisogna uscire da questa logica. Certamente non lo faremo oggi, non lo faremo domani e non lo faranno tutti. Però se qualcuno inizia penso che si potrebbe fare qualcosa di buono;
Basta illudere il consumatore che il caffè sia socialmente responsabile solamente perché c’è un bollino di certificazione. Su questo ovviamente le certificazioni hanno fatto un lavoro secondo me molto interessante negli anni passati ma sono divenuti dei modelli obsoleti. Infatti nella mia piantagione abbiamo deciso con i soci di non certificarci.
Basta assecondare il malcostume di vendere caffè espresso in Italia a 1 euro. Cioè questo porta il consumatore, come la pubblicità che abbiamo visto prima sul giornale, a non capire di che cosa stiamo parlando.
Basta assecondare il mondo dello specialty coffee e delle waves. Senza però fare una vera cultura di filiera e di prodotto sostenibile.