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venerdì 11 Aprile 2025
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Andrea Pettinari, caffè infusi sì o no? “Non guardiamo alle cose solo in bianco e nero”

Pettinari: "La definizione non è univoca, anzi, potremmo dire l’esatto opposto. C’è molta discrepanza di opinioni in merito alla terminologia corretta e cambia molto a seconda dei professionisti che vengono interpellati in merito"

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MILANO – Andrea Pettinari non è un nome nuovo su queste pagine: spesso si è fatto avanti per fare cultura attorno allo specialty, prodotto che tosta, serve e porta avanti a testa alta nell’isola sarda – è praticamente il solo a farlo senza compromessi nel suo Caffè dell’arte specialty in Via Caprera 3 -. Ora torna qui a parlare di un altro tema che è molto presente nella community, ovvero i caffè infusi (o fermentati?).

Pettinari, parliamo della nuova frontiera dei caffè specialty infusi: di cosa si tratta ed è poi così nuova o siamo noi in Italia sempre un po’ indietro?

“In realtà non si tratta esattamente di una nuovissima frontiera. Sperimentazioni di questo tipo vengono svolte già da molto tempo, nonostante se ne sia parlato un po’ di più in quest’ultimo anno.

Si tratta, fondamentalmente, di caffè che vengono “modificati” mediante l’utilizzo di altri elementi.

La definizione non è univoca, anzi, potremmo dire l’esatto opposto. C’è molta discrepanza di opinioni in merito alla terminologia corretta e cambia molto a seconda dei professionisti che vengono interpellati in merito.

C’è chi ritiene di dover stabilire una differenza tra caffè “infusi” e “aromatizzati”, chi invece ritiene le fermentazioni anaerobiche alla stregua delle cosiddette “co-fermentazioni” e così via… è davvero un panorama molto vasto e la matassa è difficile da sbrogliare.

Possono esserci metodologie che prevedono la co-fermentazione con frutta, l’aggiunta di altri elementi (cannella, per esempio) in fase di fermentazione o di asciugatura o anche l’ immersione dei chicchi verdi in un determinato liquido al fine di cercare di trasferire parte del sapore del liquido ai chicchi; si hanno poi tecniche di aggiunta di lieviti, di modificazione dell’ambiente di fermentazione (come la fermentazione anaerobica), o anche l’affinamento in botti precedentemente usate per altri scopi.

Ribadisco, il panorama è vasto, e piuttosto interessante.”

Ma Pettinari, lei si trova meglio a chiamarli infusi o fermentati?

“Dipende molto dal tipo di caffè che ho a disposizione sul momento. Cerco semplicemente la terminologia che meglio può spiegare al cliente che ho davanti, cosa succede nella “creazione” del caffè in questione.

Posso fare degli esempi più pratici di come gestisco la questione: co-fermentato è un caffè che abbiamo avuto fino a poco tempo fa, il Pineapple Express, la cui fermentazione avveniva con l’aggiunta di pezzi di ananas nel tank di fermentazione.

Il termine infuso lo uso per quei caffè i cui chicchi vengono immersi in un liquido per aggiungere degli aromi, come nel caso di alcuni cinnamon infused coffee.”

Perché secondo lei Pettinari, i caffè fermentati in assenza di ossigeno con altri ingredienti, perché hanno avuto così grande successo in questa nicchia?

“In realtà non so esattamente quanto successo stiano avendo, effettivamente, nel mondo della caffetteria specialty.

Specialmente nel modo dei professionisti, spesso c’è una sorta di tendenza al “purismo” che porta a mettere in secondo piano tutti quei caffè che non sono “caffè in purezza”, ma anche qui si tratta di opinioni.

Personalmente, sono convinto che non ci sia nulla di male nella sperimentazione, anzi! L’unico punto fermo, dal mio punto di vista, è la necessità di specificare sempre il tipo di metodologia utilizzato, sia per una questione di correttezza commerciale (non vogliamo che un caffè che è stato lavorato per assumere un gusto di whiskey mediante l’affinamento in botte venga spacciato per qualcosa che ha naturalmente quel gusto), sia per problematiche legate alle allergie (se un caffè viene co-fermentato con della frutta, per esempio, è corretto specificarlo per informare chiunque possa avere delle allergie alimentari specifiche).

Se questi parametri vengono rispettati, io sono assolutamente favorevole e anzi, sono felice se c’è spazio di mercato per questa tipologia di caffè.”

Sono un modo per avvicinare il consumatore medio allo specialty per la loro dolcezza, oppure al contrario sono ancora più traumatici per un palato non abituato?

“Mi sono fatto un’opinione abbastanza decisa in merito. Questi caffè, se raccontati e spiegati in maniera corretta, potrebbero essere il veicolo per avvicinare più consumatori al mondo del caffè specialty.

Sia chiaro che quando parlo di caffè specialty, la mia intenzione è quella di riferirmi a tutto il concetto di filiera e al tipo di catena positiva che il consumo di caffè specialty alimenta, al contrario di quello commerciale.

Nel nostro settore si parla veramente tanto di gusto, flavors, aromi etc etc, ma spesso ci si dimentica che la missione fondamentale è quella di alimentare un mercato più sostenibile di quello del caffè “standard”.

Di conseguenza, se una persona decide di bere caffè “infusi”, “co-fermentati” o in qualsiasi modo si decida di chiamarli, invece di una miscela X acquistata magari al supermercato, per me è una vittoria di tutta la filiera.

Se le persone saranno attratte o respinte da queste tipologie di aromi e sapori? Mi piacerebbe dare una risposta univoca e lapidaria, ma la verità è che avrà lo stesso impatto di un qualsiasi caffè specialty sul palato del consumatore “neofita”: sarà un gusto nuovo a cui abituarsi e che, se accompagnati nel percorso, porterà a un consumo più consapevole.”

Oggi che posizioni esistono attorno ai caffè infusi? Qual è la tua dal punto di vista di micro roasters e barista?

Pettinari: “La così tanto nota e decantata community dello specialty coffee ha spesso il brutto difetto di vedere le cose in bianco e nero, per tutta una serie di vizi di forma che la contraddistinguono quasi dai suoi albori.

E i caffè “infusi” non fanno eccezione, ovviamente

Pettinari conclude: “Come dicevo precedentemente, non solo ci sono mille posizioni differenti sulle definizioni e le nomenclature, ma possiamo assolutamente dividere la community in due posizioni ben nette su questo argomento: Pro e Contro.

Io, dal canto mio, sono assolutamente pro, a patto che tutto sia chiaramente specificato. Si tratta di sperimentazioni, di tentativi di allargare le possibilità e le prospettive.

Quest’anno noi abbiamo avuto, per un breve periodo, un caffè co-fermentato con ananas del mio amico Felipe Restrepo. Questo caffè è stata una bellissima scoperta, sia per me che per i nostri clienti, che hanno accolto la novità con piacere e curiosità, stimolati sia dalla particolarità di questa metodologia, sia dalla storia che racconta.

Una storia meravigliosa di collaborazione con un produttore di Ananas, che di questo frutto ha fatto la propria vita, come racconta il video a questo link.

La mia posizione infine potremmo definirla, rilassata! Il mondo del caffè specialty è così interessate e divertente, per cui non vedo perché dovrei escludere alcune sane sperimentazioni per questioni di principio.”

Ma quanti coltivatori veramente sanno gestire in maniera scientifica e controllata la fermentazione? Ed è un modo anche per far ottenere loro un prezzo più alto oppure è un investimento che taglia fuori i piccoli produttori?

“Non so dire con certezza quanti siano i coltivatori che sanno gestire la fermentazione in maniera esattamente scientifica, ma c’è anche da dire che, per esempio, molti ottimi naturali in commercio vengono “semplicemente” asciugati al sole e i risultati sono più che soddisfacenti.

Sia chiaro, un approccio scientifico e ragionato è sempre da preferire e incoraggiare, ma bisogna sempre mantenere un margine di tolleranza e di sensibilità.

Sicuramente quando gli esperimenti sono positivi c’è la possibilità di ottenere prezzi più vantaggiosi per gli agricoltori (ricordiamo sempre che stiamo parlando di una nicchia di mercato, e di una molto piccola, quando si parla di specialty).

Per quanto riguarda l’essere tagliati fuori, dobbiamo nuovamente tornare al “come” vogliamo sperimentare. Va da sé che se si parla di metodologie che prevedono l’utilizzo di macchinari specifici, i costi salgono e c’è una certa divisione tra chi può permettersi un investimento di questo tipo e chi no.

Se parliamo magari di co-fermentazioni più semplici o di infusioni, il problema costi influisce in maniera diversa.”

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