MILANO – Andrea Ciravegna, della Caffè Verde Europe Srls di Roma, è uno dei maggiori esperti di commercio del crudo in Italia. È il fornitore di molte torrefazioni. Non è nuovo su queste pagine: l’ultima volta ha sottolineato la situazione critica che rende pericoloso il passaggio attraverso il canale di Suez. Questa volta torna ora a parlare di prezzi, analizzando i tanti passaggi e costi che si devono sostenere per ottenere la materia prima in Italia.
Ciravegna: il container è l’unità di misura
“Analizziamo tutti gli step dalla partenza del caffè in origine partendo dalla base FOB, i costi dei noli, dell’assicurazione, sino all’arrivo al magazzino compratore. Tutto naturalmente dipende a monte dalla forza economica e dalla convenienza che un cliente ha per poter comprare un container.
Quantitativi minori il torrefattore può acquisirli pronti nei principali porti/magazzini italiani dagli importatori di crudo effettuando anche un giardinetto di qualità diverse per comporre le proprie miscele.
Prenderò quindi come unità di misura, un container, che normalmente può trasportare all’incirca 20mila chili di verde ed è fornito dall’esportatore free on board, ovvero lo fa arrivare in porto e lo mette nella nave a sue spese.
Dopodiché cominciano i pagamenti, a partire dal viaggio marittimo, cioè il nolo.
Il costo teorico dipende sempre da diverse variabili e dalla compagnia a cui si fa riferimento: ad esempio una ditta di grandi dimensioni, pagherà un nolo più basso rispetto a quello stimato per un’azienda più piccola, in quanto può contare su convenzioni e su centinaia di contenitori all’anno.
Prendiamo come riferimento un contenitore che arriva dal Brasile – il porto principale è nell’80% dei casi quello di Santos – Si paga il nolo e le spese locali al costo , la somma ammonta intorno ai 1400 dollari (1290 euro circa CALCOLANDO UN CAMBIO USD di fine gennaio 2024> Euro di 1,085).
Se invece ci riferiamo a Mombasa – da cui noi imbarchiamo il caffè del Kenya, Uganda, Tanzania, Repubblica Democratica del Congo sempre free on board – la cifra cambia e si aggira sui 1200 dollari (1106 euro).
Ricordo che invece dall’India il costo del nolo è aumentato sino ai 1500 dollari (1383 euro) e che si deve anche considerare in questo momento particolare il surcharge – che da Mombasa, dall’India, dal Brasile non c’è, in quanto il trasporto è diretto – per chi è costretto a passare per il Capo di Buona Speranza, non potendo attraversare il Mar Rosso, che si aggira da compagnia a compagnia a circa 1300 dollari per container e questo comporta una spesa finale quasi raddoppiata.
La merce poi è da assicurare con una Compagnia: ce ne sono diverse, ma per quella che dà tutti i servizi completi, inclusa l’eventuale perdita naturale di peso, il costo si aggira sul 1,30% del valore della merce.
Il carico poi arriva a Trieste, o in altri primari porti italiani, dove viene preso da uno spedizioniere specializzato che a sua volta la porta nel proprio magazzino dove resta per una media di 15-20 giorni, fino alla sua uscita: la somma tra entrata e uscita, con la produzione di una serie di documenti (THC, Analisi igienico sanitaria DPR 470, Certificato di nulla osta sanitaria circolare 76D/96, Svincolo polizza, Inspection Fees, Security Surcharge, Demurrage Detention, Trasporto interportuale e restituzione del contenitore vuoto, introduzione al magazzino e uscita) totalizza un costo finale di circa 150 euro per tonnellata media.
C’è poi da aggiungere il pagamento della dogana che è pari al 22%,(IVA) del valore di fattura del Venditore (Trader o Esportatore) , per merce franco magazzino portuale (porto franco).
Si passa al trasporto: il container scompare e restano i 20mila chili che devono esser portati sino al magazzino del cliente. La spesa varia a seconda del quintalaggio: sotto i 20mila chili è definito collettame e i trasportatori chiedono un prezzo maggiorato (sino ai 200/250 euro).
Per 20mila chili interi invece, si pagano intorno ai 150 euro per tonnellata media. Queste tariffe sono suscettibili di aumenti o diminuzioni in base al traffico che l’Importatore assicura annualmente al corriere.
Qui il giro finisce. Il torrefattore tosta e per legge può dichiarare il prodotto ricavato con un calo percentuale determinato dalla tostatura“.
Quanto la crisi logistica dovuta alla parziale chiusura del transito per il Mar Rosso sta incidendo e inciderà sul prezzo del caffè
Ciravegna: “Può avere un’incidenza a causa dei surcharges marittimi . Questo perché una compagnia di navigazione può decidere di aumentare i prezzi a causa del percorso più lungo: 20-25 giorni in più di trasporto significano un consumo maggiore di conbustibile e d’impiego di una nave.
I tempi medi di arrivo sono di 45 giorni (salvo eccezioni e ulteriori dilatazioni), ma in questo momento le tempistiche sono sempre più vaghe.
Qualcuno inizia ad applicare un surcharge che spazia dai 1200 ai 1500 dollari Usa, raddoppiando il costo del nolo. Ricordo che a fine dello scorso anno questo surcharge non c’era.
Attualmente, la mia previsione è che avremo innanzitutto un inasprimento di un fenomeno che già era presente, ovvero la carenza di Robusta, con il Vietnam, primario produttore di Robusta, in shortfall dalla seconda metà del 2023 e dalla riluttanza attuale degli esportatori di questo Paese ad offrire il nuovo raccolto per imbarchi su mesi a venire a causa del “backwardation” cioè le posizioni di Borsa Liffe a sconto sul futuro.
Si è aggiunta a questo la difficoltà ulteriore del Mar Rosso bloccato e così, mentre la richiesta aumenta. i grossi traders non hanno caffè da offrire. Molti di loro ormai non vendono per imbarchi se non hanno la certezza di possedere materialmente la materia prima nei Paesi d’Origine.“
Ciravegna: “Il futuro è un’incognita”
“Recentemente ho acquistato un buon caffè robusta che ho trovato disponibile a Trieste per miracolo, e offrendolo immediatamente via email sono stato richiamato subito da diversi Clienti che lo volevano comprare.
Questa è ovviamente una situazione anomala che dovrà prima o poi risolversi. Sono attualmente in attesa di quattro contenitori dal Vietnam partito su una nave il 25 novembre con previsione di arrivo per i primi di gennaio: ma lo spedizioniere mi ha comunicato che la nave si è fermata momentaneamente a Singapore per la nota causa della pericolosità di passare per il Mar Rosso, e quindi le stime di arrivo in Italia si sono spostate al 1° febbraio.
Come me, sono tanti colleghi.
E chi non ha fatto ordini a fine novembre sta pure peggio. Oggi ci sono traders e torrefattori che si fidano soltanto di merce a terra nei principali porti italiani ed anche europei, ma non se ne trova.
C’è inoltre un grosso punto interrogativo. Tutto quello che è stato fortunatamente imbarcato a fine anno, sicuramente non arriverà prima di metà marzo.
Perciò si creerà un buco. I torrefattori che hanno temporeggiato a gennaio hanno trovato una situazione alla quale non erano abituati, con la scarsa disponibilità di caffè robusta in offerta. Le previsioni di imbarco hanno tempi lunghissimi.
Dall’altra parte l’Arabica, purtroppo, viene richiesto sempre meno, a causa dei mercuriali di Borsa aumentati. La concorrenza tra torrefattori impedisce di alzare il prezzo sul cliente finale. Resta avvantaggiato chi ha firmato contratti lunghi. Ma anche con queste premesse, se il trader non ha la merce in Origine, non c’è via di scampo e tutto è rimandato.
Infine, ultima notizia vi è attualmente poca disponibilità di containers da Mombasa ed il porto è congestionato.”
Da cosa sono determinati gli attuali differenziali tra mercato fisico e borse? Ritiene possibile un reintegro, almeno parziale, delle scorte certificate di Londra e New York rispetto agli attuali minimi storici?
Ciravegna: “Per rispondere alla prima domanda dalla qualità del caffè. Se si compra per esempio Uganda crivello 18, uno crivello 15 e uno 12, il primo ha un differenziale maggiore del secondo e il secondo del terzo.
In questo momento non vedo un reintegro delle scorte certificate per il Robusta: oggigiorno mancando i primari Robusta, siamo arrivati a vendere il Conilon Robusta brasiliano. I torrefattori italiani non amano molto questa varietà che viene venduta quasi per la sua totale percentuale negli Stati Uniti, eppure ora la stanno acquistando proprio perché mancano le altre qualità di caffè Robusta come già spiegato sopra. E questo succede già da questa estate.”
Detto questo, come il prezzo pagato per il verde viene poi distribuito lungo la filiera?
“Nei Paesi Produttori , c’è la stessa trafila che esiste da FOB al torrefattore: bisogna andare in piantagione, da chi lo coltiva e lo raccoglie per poi venderlo al grossista che ha i macchinari per pulirlo ed insaccarlo.
Poi lo porta al rivenditore che lo miscela e fa il cup tasting selezionandolo per i vari gradi qualitativi e infine da chi lo imbarca mettendolo in sacchi di juta da 60 chili, In Big Bags da 1000 chili o in bulk a seconda della richiesta dell’importatore. I passaggi sono tantissimi e quindi risulta praticamente impossibile risalire al coltivatore.
Il trader prenderà una cifra diversa a seconda della sua dimensione per coprire le spese, la Borsa e i margini. Sia gli esportatori che i traders arbitrandosi su consegne future , devono pagare i margin-calls ai brokers che operano sulle borse di New York e di Londra immediatamente, entro 48 ore, per ogni variazione di Borsa all’insù o all’ingiù altrimenti corrono il rischio di vedere i propri contratti chiusi
E la Borsa è la Borsa: ci si arbitra per prevenire il rischio di perdita di capitale.”
Nel periodo luglio 2022 – giugno 2023, l’Uganda ha esportato verso l’Italia oltre 2 milioni di sacchi di caffè. Ritiene che questo trend positivo continuerà?
“Sì perché è un caffè apprezzato, più di quello del Vietnam che però è un’onda lunga. L’Uganda ha esportato molto verso l’Italia perché gli italiani ne amano la neutralità di base e la forza particolare che si riscontra poi nella tazzina.
Trent’anni fa, non esisteva il Vietnam ed il robusta arrivava principalmente dall’Africa Occidentale, Costa d’avorio, Camerun, Togo, RCA, Angola, e quelli erano i produttori di caffè robusta di riferimento. Quando ho iniziato la mia attività, l’Uganda aveva una bassa quota di esportazione ed esportava principalmente in Inghilterra.
Mi ricordo che per i miei primi acquisti negli anni ’70 dovevo recarmi a Londra dove vi era la sede dell’Uganda Coffee Board, il Vietnam nelle statistiche della fine dello scorso secolo era annoverato fra gli altri Paesi minori. Poi c’è stato il boom ed è diventato il secondo produttore al mondo di robusta.”