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Alla scoperta di un rito torinese, ecco la pagella della cioccolata a Torino

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TORINO – Bere la cioccolata calda a Torino è un rito che fa parte della cultura di questa città. Non esiste bar, caffetteria o pasticceria che si esima dal proporne una propria versione: all’acqua o al latte, liscia o con panna, naturale o con cannella.

La storia

Il merito di aver introdotto il nostro Paese, non ancora unito, al piacere del cacao e della cioccolata fu del duca Emanuele Filiberto di Savoia che ne aveva apprezzato la bontà alla corte di Carlo V di Spagna.

Furono dunque i matrimoni dei Savoia con le Infante di Spagna e gli scambi di cuochi e cortigiani a far sì che, a partire dalla seconda metà del Cinquecento, Torino divenisse una delle più importanti capitali europee nella lavorazione del cioccolato.

In città arrivò grazie a Catalina Micaela d’Asburgo, andata in sposa a Carlo Emanuele I di Savoia, che insieme al cibo degli dei portò al suo seguito anche una molina. Ossia la domestica addetta alla preparazione della cioccolata calda. A testimonianza dell’importanza della bevanda all’epoca.

La cerimonia

Ma come è vissuto oggi il rito della cioccolata calda a Torino? Lo abbiamo chiesto a Barbara Ronchi della Rocca, esperta di buone maniere e di storia del galateo. Con lei abbiamo assaggiato una decina di tazze più o meno fumanti in pieno centro cittadino.

La scelta è stata dettata da un percorso a piedi tra caffè storici e insegne conosciute. La prevalenza è stata di cioccolate calde a base di latte con prezzi oscillati tra i 3 e i 5 euro, per un consumo al banco.

Negativa la generale uniformità di gusti interrotta solo da alcune eccezioni. La Farmacia del Cambio, dove viene servito un monorigine della Tanzania. Le ricette segrete di istituzioni come Mulassano e Ghigo. Le sperimentazioni di Guido Gobino, che propone – oltre alle versioni classiche – anche quella con gianduja al sale.

Manca quasi completamente la giusta attenzione nel servizio, come rivela l’utilizzo di tazze non idonee al consumo della bevanda. «In città – commenta la Ronchi della Rocca – si dovrebbe ristudiare la storia per capire l’importanza della cioccolata calda nella cultura torinese. Non si tratta infatti di un puro consumo, bensì del nostro way of life.

Rispecchia quella cultura barocca fatta di eleganza, di cioccolata, di piccola pasticceria e di chiacchiere che hanno fatto di Torino una piccola Parigi come ricorda anche Guido Gozzano.

È quella Torino dei dolci che trasmetteva gioia di vivere ed eleganza che, insieme al garbo, andrebbero recuperate.

La cioccolata calda è una bevanda da compagnia e deve essere servita nella tazza giusta per rispettarne la storia. Oggi in città è come se stessimo suonando una bella musica con un disco graffiato».

Gli oggetti

La tazza perfetta in cui degustare una cioccolata deve essere non a base tonda, bensì a tronco di cono con un’imboccatura stretta per mantenerne più a lungo la giusta temperatura.

Meglio preferire la porcellana e la ceramica al vetro, ideale invece per il Bicerin in cui si devono poter vedere i differenti strati. «La cioccolata calda andrebbe assaggiata senza panna (che a Torino si chiamava fioca, cioè neve, e andava servita a parte) e amara per apprezzarne veramente il gusto – prosegue Ronchi della Rocca -.

Bisognerebbe poi accompagnarla con i bagnati, i biscotti inventati proprio tra il Seicento e il Settecento per essere intinti nella cioccolata: basti pensare alle paste di meliga, agli amaretti, ai torcetti o alle lingue di gatto.

Il galateo ha sempre vietato di intingere qualsiasi cosa in qualsiasi liquido. L’unica eccezione è la cioccolata calda, che un tempo era servita in una tazza chiamata Mancerina. Che permetteva appunto di appoggiare i biscotti da intingere».

I luoghi

Caffè San Carlo e Pasticceria Ghigo sono i luoghi in cui trovare il maggior assortimento di bagnati. Seguiti a ruota dal Caffè Fiorio di via Po, che ancora racconta di quell’usanza iniziata a fine Seicento legata al consumo della cioccolata calda nei caffè storici sia per colazione che per merenda.

A corte poi, erano così appassionati di questa bevanda che divenne di uso comune per ingannare il tempo. La merenda iniziava infatti alle 2 del pomeriggio, terminava alle 10 di sera e consentiva di bere fino a dieci tazze di cioccolata senza essere ritenuti ingordi.

«Il rito della cioccolata calda – prosegue l’esperta di galateo – nel Settecento cambia addirittura la cultura della nostra prima colazione che da salata diventa dolce».

Ma cosa resta oggi di quello spirito? «Rimane – conclude la Ronchi della Rocca – una ritualità che fa parte del nostro Dna e che elegge la cioccolata calda come bevanda da compagnia.

La cioccolata calda non può, però, essere bistrattata nella sua essenza: va preparata con ingredienti di qualità. Non dovrebbe essere banalizzata con sapori commerciali. E non deve essere più servita in tazze prive di garbo, con cui si offusca sia la sua storia che quella della città».

Sarah Scaparone

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