Alberto Trabatti, titolare della Torrefazione Penazzi a Ferrara, ha voluto prendere parte al coro di addetti ai lavori che hanno guardato con interesse la puntata di Report andata in onda di recente, che ha messo sotto la lente di ingrandimento la tazzina italiana nei bar.
Nella sua azienda, una Petroncini da 10 chili ed una Giesen da un chilo e mezzo per essere più flessibili e rispondere anche alle esigenze di un consumatore che desidera specialty coffee e quelli che Trabatti definisce i “dignity coffee” – ovvero di alta qualità, ma con un punteggio inferiore – e talvolta fuori dai giri più noti di fornitori.
Trabatti commenta Report
“In realtà è già da diverso tempo che si sa come stanno le cose a Napoli: è certo che la tazzulella è un mondo a parte dentro il già vasto universo del caffè. Di fatto si creano queste piccole isole all’interno delle quali nascono dissidi e accordi tra le persone.
Per un momento però, dimenticando di essere dei tecnici, ovvero coloro che hanno frequentato i corsi e vivono come me questa bevanda con passione e professionalità da ormai 20 anni dall’avvio della mia attività, vorrei partire da altre premesse.
Innanzitutto, molto spesso la gente si lamenta se il caffè costa un po’ di più, ma sono convinto che alcune tazzine non si dovrebbero bere neppure se offerte gratuitamente.
Davanti alla puntata di Report purtroppo ho avuto delle conferme rispetto a quello che già conoscevo. Eppure, mi sembra che non sia emerso un dettaglio in più che invece potrebbe essere utile: a Napoli, spesso e volentieri la storia e la tradizione del caffè è stata associata ad una figura iconica della napoletanità, che però è sfuggita nell’episodio.
Sto parlando di Edoardo De Filippo il quale affermava di tostarsi il caffè da solo, a manto di monaco: nulla a che vedere dunque con le bruciature che vengono perpetuate da tante aziende napoletane e non. Basta guardarlo al balcone di casa, in “Questi fantasmi”, mentre racconta al “Professore” i suoi riti.
Se vogliamo quindi per un momento, parlare soltanto di tradizione e cultura della bevanda, qua si sta facendo un affronto a uno dei più grandi rappresentanti dell’essere partenopei.
A parte questa digressione, ricordiamoci che il caffè si può cuocere proprio come si fa come la carne: al sangue, medio o ben cotta, senza però bruciarla. Spesso l’eccessiva tostatura che chiamano all’estero “french roast”, è quella sbagliata che però in certi casi è voluta per nascondere i difetti della materia prima.
Ma accade di rovinare il risultato finale anche con gli specialty quando li si tosta troppo chiari, restituendo in tazza una spremuta di limone.
L’importante dunque è evitare gli eccessi e studiare questa scienza, che è inesatta: con una temperatura, un’umidità e un certo peso di caffè nella macchina, si può ottenere un determinato risultato, ma non è detto che a seguire la stessa curva di tostatura, si possa mantenere costante, perché basta cambiare anche solo leggermente un parametro per scoprire una soluzione diversa. Non più buona né più cattiva.
Bisogna stare attenti a tutti i fattori di quella giornata, per cercare di replicare il più possibile il risultato.
“Altra cosa che ricordo a tutto il settore: noi vendiamo caffè, non siamo delle banche che erogano finanziamenti e comodati d’uso. “
“Noi riforniamo i bar e i gestori proprietari o coloro che stanno acquistando le proprie attrezzature ed accessori, ma non pratichiamo strategie commerciali volte ad acquisire clienti con questa sorta di apparente vantaggio economico: proponiamo il caffè al suo giusto prezzo, che tiene conto della materia prima e dei suoi criteri di lavorazione, e se qualcuno vuole differenziarsi dai propri competitor vicini, con il nostro prodotto ci riuscirà con alta probabilità.
Il sistema del finanziamento in effetti poi può incentivare l’atteggiamento di noncuranza dell’operatore dietro il bancone: tanto ci si affida per qualsiasi cosa al finanziatore, al tecnico della torrefazione. Alcuni baristi aspettano addirittura che qualcuno di esterno arrivi a regolare per lui la macinatura: sono esperienze invece che dovrebbero saper gestire in autonomia, in modo da sviluppare fondamentali competenze tecniche.
La nostra torrefazione, ogni volta che acquisiamo nuovi clienti, si occupa anche della loro formazione. Prima di parlare di specialty coffee, bisognerebbe pensare al caffè che viene servito solitamente nei bar italiani: a chi beve l’espresso e vuole staccare per un minuto, diamo qualcosa che può essere definito caffè.”
Tutto deve partire dal barista, che si deve però liberare dalle regole del finanziamento
“Avere le proprie attrezzature significa anche poter scegliere la materia prima da usare per la propria tazzina, una che soddisfa le sue esigenze in termini di qualità. A quel punto il barista diventa professionista che sa riconoscere un buon caffè. Ed ha più potere decisionale per i suoi acquisti.
Forse per evitare questo cambio di paradigma, il torrefattore che lavora solo con in mente il profitto, ha interesse a mantenere bassa la conoscenza del prodotto dei suoi clienti, ovvero, i baristi. Oppure si formano usando i prodotti sbagliati, fatti passare per eccelsi.”
La questione del prezzo, legato alla qualità
Trabatti continua: “Il caffè ha una vita aromatica molto breve, tra i trenta e i 45 giorni si esprime al suo massimo, dopo essere stato tostato. Da lì in poi c’è un calo in termini di gusto e di qualità. Come italiani dobbiamo toglierci la testa che l’espresso debba costare un euro soltanto: se è cattivo, non si torna nel bar, altrimenti è giusto anche pagarlo il prezzo corretto rispetto alla sua qualità.
A tal proposito ho organizzato in passato un corso di difesa dal caffè cattivo: ho mostrato gli errori che un barista di solito compie e a cui dover stare attenti entrando in un locale, in modo che il consumatore sappia cosa sta pagando e bevendo.
Estrarre un espresso è come guidare un’auto: per farlo, bisogna studiare, fare pratica a scuola. Così dovrebbe essere per i baristi.
Dobbiamo anche noi dall’altra parte, iniziare a rifiutare queste richieste: quando mi capita di ricevere telefonate da gestori che vogliono tutti gli accessori e le attrezzature, li rimando a controllare la mia filosofia nel nostro sito. Difficilmente mi richiamano. Idealmente li ringrazio per non avermi fatto perdere altro tempo.
Il mio esempio sempre in mente è Gianni Frasi, con il quale condividevamo un pensiero preciso che si traduce nella dignità del caffè, con l’uso degli ingredienti giusti, trattati correttamente.
Che sia Napoli, Milano, Palermo, Ferrara, non cambia la sostanza: l’etica alla fine è quella che nobilita il nostro mestiere, e il prodotto. Si parte dall’idea di differenziarsi da chi normalmente rovina la tazzina nei bar. Non bisognerebbe parlare di qualcosa di “buono” da contrapporre all’idea di “cattivo”, nel Caffè: la qualità e la salubrità dovrebbero essere un assioma per tutti.
Le cose purtroppo ancora non sono cambiate in questi ultimi anni, ma magari proprio ricollegandosi alla celebre tonaca di monaco napoletana, si può guardare ad un futuro differente. È possibile guadagnare anche lavorando in maniera diversa. In una crescita moderata ma costante, garbata, che dà reciproca soddisfazione a me e al barista, seguendo un fine decisamente più importante nel lungo periodo.”