MILANO – Ecco il punto di vista di Alberto Polojac, coordinatore nazionale Sca Italy, sul caffè e sulla cultura che ruota attorno ad esso nel nostro paese, ricollegandosi all’articolo uscito su Repubblica e firmato da Massimiliano Tonelli: “Cosa manca ancora al settore italiano del caffè per essere credibile? Chiarezza, trasparenza, leggerezza e unità di intenti. Storia e tradizione non bastano più, da sole, a garantire l’eccellenza del prodotto. In qualsiasi settore, utilizzare come chiave di comunicazione la sola paternità di qualcosa rischia di scatenare una sorta di effetto boomerang se questa non è accompagnata da un continuo spirito di rinnovamento e dal trasferimento di una cultura autentica del prodotto all’utilizzatore finale.
Polojac, Sca, un’analisi dello stato di salute del caffè italiano
Se è vero che le origini dell’espresso sono indubbiamente italiane è vero anche che la sua diffusione su scala globale si deve a un colosso americano, più che alle reali capacità nostrane.
L’articolo uscito di recente su “La Repubblica” per mano di Massimiliano Tonelli, non ha fatto altro che scoperchiare i tanti problemi che il settore del caffè, e non solo la nicchia dello specialty, conosce già da tempo. Non si capisce perché quando si cerca di analizzare in maniera lucida e obiettiva il panorama del caffè in Italia, evidenziandone i limiti, ci si debba poi scontrare con i soliti refrain che riguardano il primato italiano, la tradizione e il campanilismo.
Suonano un po’ come quel “abbiamo sempre fatto così”, che per chi come me si occupa anche di formazione nel settore capita di sentire quotidianamente o quasi.
Forse questo atteggiamento è una delle ragioni per le quali il nostro paese è più indietro rispetto ai trend che caratterizzano il consumo di caffè all’estero
Dove il movimento specialty ha trovato terreno fertile perché questa bevanda non rappresenta uno “status quo”, ma è oggetto di ricerca e innovazione, dalla selezione della materia prima, alle tecniche di tostatura, ai diversi metodi di estrazione.
Eppure, la strada che porta al miglioramento della qualità si è dimostrata vincente in altri settori alimentari che vantano una tradizione anche più radicata rispetto al caffè (pensiamo al vino o all’olio, ad esempio, per i quali troviamo una scelta di alta qualità ormai in buona parte della grande distribuzione).
Dire che il caffè in Italia non sempre è all’altezza della storia che lo accompagna, per chi si intende di qualità e intende parlarne in maniera obiettiva e trasparente, non rappresenta un affronto alle nostre tradizioni ma è invece, purtroppo, “l’amara” verità.
Lo dimostrano alcuni numeri e dei dati di fatto, che liberano il campo dalle opinioni personali, dal tifo da stadio e dall’autoreferenzialità.
La provocazione di Polojac
Se pensiamo a Roma e Milano, le due città più rappresentative del Paese, quante caffetterie vi vengono in mente in cui poter provare una scelta ampia di caffè (magari anche di marchi diversi), illustrate e descritte minuziosamente da chi ve le serve,
estratte con cura e precisione, il tutto possibilmente abbinato ad un’offerta di cibo adeguata?
Vi sembra un’ipotesi surreale? Eppure, questo rappresenta la normalità in qualsiasi enoteca, quando si tratta di scegliere un buon calice. Se doveste provare a entrare nei primi dieci bar a caso nel vostro tragitto casa-lavoro, in quanti di questi pensate vi possa
capitare di bere un espresso estratto nei tempi giusti o un cappuccino con latte montato correttamente?
Provate a fare questo esperimento e documentatene i risultati.
In quanti ristoranti stellati vi è capitato di concludere un pasto con un caffè non dico buono, ma quantomeno dignitoso? Quante volte vi è capitato di trovare diverse fasce di prezzo per una tazzina di caffè?
In un paese in cui ci si scandalizza ancora per una tazzina di espresso venduta a 1 euro e 50, chi conosce realmente il prodotto sa che a volte anche 80 centesimi sembrano esagerati per quanto ci viene proposto.
Potreste ribattere: “All’estero non capita di essere più fortunati!” Può essere, ma per noi che rivendichiamo la paternità di un prodotto dovrebbe essere scontato trovarsi di fronte al meglio, dovrebbe essere la normalità e non l’eccezione. Detto questo, provate ora a fare una ricerca per “specialty coffee” seguita da una a caso delle principali capitali europee. Non siete ancora convinti? Sapete quante volte è stato vinto dall’Italia, patria dell’espresso, il campionato mondiale baristi WBC? Nemmeno una.
Direi che già questo basti a mettere il dubbio che nel nostro paese esista davvero una cultura del prodotto autorevole, condivisa e accessibile a tutti.
La soluzione c’è, ma il percorso è solo all’inizio
Vi domanderete ora, “Come ne usciamo quindi?”. Con onestà, trasparenza, cultura e la consapevolezza di avere davanti un percorso duro e in salita, che però può essere molto stimolante e perché no, anche appagante economicamente. Trasferire cultura significa far comprendere al consumatore che il caffè non è un prodotto da dare per scontato, nemmeno quando lo si consuma nel paese con la più forte tradizione in questo settore.
Chiariamo ad esempio il discorso dell’acidità: già quando è crudo un chicco di caffè contiene in prevalenza acido citrico e malico. Di sicuro questi elementi degradano in fase di tostatura, ma se scompaiono del tutto a favore del solo sentore di tostato significa che qualcosa non è andato per il verso giusto. Come dico spesso durante i corsi di analisi sensoriale, equilibrato non vuol dire piatto e monocorde, e il senso del termine “bilanciato” va inteso immaginando un trapezista che riesce a stare su un filo nonostante il peso che si porta appresso.
Polojac: Dentro una tazzina di buon caffè c’è un universo sensoriale tutto da scoprire
Che sa anche di agrumi e frutta e non certo di spremuta di limone. Si tratta di mettere in moto un percorso virtuoso e di avvicinamento al pubblico, perché no, anche attraverso le competizioni, che veicolano un messaggio importante e diretto, divertendo allo stesso tempo. Queste sono le finalità dichiarate dall’attuale Chapter di Sca Italy fin dall’inizio del proprio mandato, che sono state portate avanti attraverso diversi contenuti e attività nel corso di questi anni. Nemmeno il fatto di stare su un palcoscenico senza pubblico, o quasi, come è accaduto nell’ultimo anno, ha fermato questa nostra missione, che ha visto numerose aziende e trainer continuare quest’opera di divulgazione e coinvolgimento con grande dedizione e passione.
C’è bisogno ora di “normalizzare” il prodotto specialty, che suona come un
ossimoro, ma che non lo è affatto. Significa far comprendere al grande pubblico che un buon caffè va ben oltre la generica dicitura 100% Arabica (che sarebbe come dire che un buon vino appartiene alla specie Vitis vinifera), che è alla portata di chiunque e che fa pure bene alla salute! Non significa affatto banalizzarlo, anzi al contrario, va raccontato con parole semplici e comprensibili, ne va spiegata ed esaltata la complessità in tutti i suoi aspetti attraverso l’esperienza diretta, ne va sottolineata la magia, la professionalità e la ricerca della parte meno visibile della filiera, ovvero ciò che porta a trasformare il seme di un frutto in un prodotto di uso quotidiano.
Perché in fin dei conti un caffè specialty, come dico spesso, è “solo” un caffè buono e, dal momento che deve essere un piacere, prendendo a prestito lo slogan di un famoso spot anni ’80, “se non è buono che piacere è?”