MILANO – In casa Lavazza 1895, gli specialty sono i benvenuti e così coloro che li coltivano. Tra i prescelti per la linea dei caffè speciali 1895, un altro coltivatore ha deciso di raccontarsi, e noi ci facciamo trasportare dalla sua storia in mezzo a dei paesaggi molto lontani e spesso difficili da vivere e anche raggiungere. Abbiamo parlato con Ghailan Saad Al Ofairi della sua quotidianità e di come collaborare con Lavazza abbia migliorato la sua professione e dei suoi collaboratori.
Al Ofairi e il suo piccolo, grande, mondo
Com’è la vita di un coltivatore?
Ghalian Saad Al Ofairi: “E’ fatta di duro lavoro. Io passo l’intera giornata nei campi e intanto mi prendo anche cura dei 15 membri della mia famiglia.”
Quali sono le caratteristiche principali della sua farm?
Al Ofairi: “È una zona montuosa con strade accidentate. Il nostro villaggio risulta parecchio isolato dalle altre regioni. L’altitudine si trova attorno ai 2200 metri slm. Il suolo è piuttosto ricco, anche se in alcuni punti è scarso di quei minerali che sono essenziali per produrre il caffè ad alta quota.”
Coltivate soltanto il caffè?
Al Ofairi: “Coltiviamo anche il mais per il nostro consumo domestico e poi noci con altri tipi di frutta. Ma vendiamo solamente il caffè”.
Quali tipi di caffè producete e con quale metodo?
Al Ofairi: “Udaini, che è il nostro caffè locale, e poi il Dawairi, i cui alberi hanno un aspetto diverso dalla prima varietà. Inoltre ci sono anche delle piante di Tufahi, che produciamo due volte all’anno.”
Quali sono le competenze necessarie per fare il suo mestiere?
Al Ofairi: “La terra dev’essere in salute, e sempre arata. Mentre i semi devono esser piantati in modo efficiente e devono esser curati spesso”.
Quando e perché ha deciso di diventare un coltivatore di caffè?
Al Ofairi: “Sono nato tra gli alberi di caffè. Mia madre mi ha ispirato tantissimo, essendo una grande coltivatrice. E’ stata lei ad insegnarmi tutto sulla piantagione e su questa materia prima”.
Al Ofairi, quali sono le principali difficoltà del suo lavoro?
Al Ofairi: “Le strade accidentate e l’essere isolati da tutti: assumere dei dipendenti è molto costoso. Un altro problema è l’assenza di personale formato, la mancanza di accesso alla scienza: non siamo in grado così di curare le malattie che affliggono le colture. Lo scarafaggio Borer è il nostro acerrimo nemico, che a volte si porta via più di un quarto del raccolto. Abbiamo provato diversi metodi che però ci sono costati la produzione per qualche anno, impattando sul suolo e sugli alberi. Tempo fa abbiamo cercato di usare il letame non processato e quell’anno è stato fruttuoso; eppure quello subito dopo, gli alberi hanno prodotto molto poche ciliegie.”
E quali sono i rischi se niente cambia al più presto?
Al Ofairi: “I nostri alberi moriranno e i coltivatori con loro. Queste malattie influiscono sulle entrate provenienti dal caffè: non riusciremo a sopravvivere senza coltivarlo.”
Come pensa di combattere il cambiamento climatico e tutte le altre minacce della produzione futura?
Al Ofairi:“Abbiamo bisogno di supporto, perché non possiamo combattere da soli. Ci servono gli scienziati, per capire cosa sta capitando e così poterlo affrontare”.
Come siete riusciti a collaborare con una grande azienda come Lavazza?
Al Ofairi: “La natura e la qualità del nostro caffè e il nostro duro lavoro: perché è questo quello che conta, non la quantità.”
Cosa è cambiato nella vostra realtà quotidiana e lavorativa?
Al Ofairi: “Solitamente vendevamo ai trader locali che ci pagavamo molto poco per il caffè. L’intermediario svalutava il nostro prodotto, lo stesso che invece compagnie come Lavazza apprezzano dandogli il giusto valore. Questo ha aiutato ad aumentare il nostro guadagno e così ci siamo potuti espandere nella coltivazione.”
Al Ofairi, potrebbe convincere un consumatore medio italiano che il caffè bisogna pagarlo più di un euro?
Al Ofairi: “Questo prezzo non è sufficiente. Anche se beveste questo caffè localmente nello Yemen, senza esportarlo, trasportarlo e impacchettarlo, ancora non varrebbe solo un euro. Come si può pagare questa cifra a un coltivatore e a un esportatore che lotta per spedirlo fuori dal Paese? Un euro non paga il mio duro lavoro.”