MILANO – Adriano Cafiso è un professionista che abbiamo conosciuto in mezzo a una piantagione, in Sicilia (Finca Balistrieri, Santa Croce Camerina, la più antica piantagione di caffè su suolo in Italia), un rarissimo caso di produzione italiana del chicco: ora torniamo a parlare con lui dall’Etiopia.
Condividiamo il suo racconto che inizia dalla sua esperienza nella culla della bevanda, per continuare con una riflessione sulla Robusta.
Cafiso ci fa viaggiare con il suo racconto
“Mi trovo vicino il piccolo villaggio di Hambella, nella regione dell’Oromia Etiope denominata Guji, con un gruppo di dieci persone all’interno della piantagione di caffè e stazione di lavaggio di Hassan.
La corrente elettrica funziona solo per alcune ore del giorno è non c’è accesso all’acqua potabile. Le condizioni di vita della popolazione sono di estrema povertà e i soldi spesi in armamenti per condurre la guerra civile degli ultimi due anni, influiscono pesantemente sulle possibilità di sviluppo di questo Paese. Mancano scuole e ospedali e le risorse sono influenzate essenzialmente dal clima e dalle piogge.
Faccio un passo indietro: otto anni fa, la prima volta che sono andato in Etiopia per partecipare alla stagione della raccolta, il prezzo delle drupe o ciliegie del caffè era di circa 8 birr etiopi al chilo, negli anni le cose sono pian piano cambiate fino ad arrivare ad oggi, con un prezzo minimo di 60 birr al chilo più i dividendi per gli specialty o i caffè biologici.
Il costo va messo in relazione ai cambiamenti dei mercati finanziari e alla svalutazione della moneta, e certamente offre un’immagine immediata di quanto il caffè possa influire favorevolmente sull’economia del Paese.
Una materia prima che fa parte della cultura etiope, che prevede una cerimonia vera e propria per la sua preparazione ed è consumata dal 95% delle famiglie.
L’Etiopia è il Paese d’origine della specie Arabica e le sue varietà (40 identificate ma centinaia ancora da individuare) sono per aromaticità introvabili in qualunque altra parte del mondo.
Di recente è stato raggiunto l’accordo tra il World Reserch Coffee e il Governo etiope che finalmente ha dato forti segnali di apertura verso la ricerca: a questo proposito ho trovato di grande interesse lo studio svolto sulla Hamelia Vastatrix, una delle più grandi piaghe del caffè, che ha colpito anche l’Etiopia senza per fortuna riuscire a diffondersi proprio grazie alla grandissima varietà genetica delle piante di questi territori.
Ho sempre insistito sul fatto che dobbiamo difendere e studiare le varietà Heirloom, che mi ricordano un po’ i granì antichi siciliani.”
Cafiso ha ottenuto la licenza di assaggiatore Q-grader per la Robusta, il primo in Sicilia
“Su questa determinata specie genetica (non varietà) ho sempre sentito molto parlare (a volte sproloquiare).
Partendo dal presupposto che paragonare Arabica e Robusta è come mettere a confronto un’arancia ad un mandarino (cioè due cose incomparabili), trovo che il movimento verso una Robusta di qualità sia sempre più ineluttabile: lo si vede già nei campionati dei baristi, nelle caffetterie specialty e direttamente nei campi dove la si lavora.
Io spero che un movimento verso la Robusta di alta qualità si possa vedere presto anche in Italia, soprattutto al Sud, dove spesso si preferisce berla non per una questione di prezzo ma essenzialmente per una preferenza di gusto, legata certamente anche alle abitudini e alle tradizioni.”
Cosa ha scoperto in termini qualitativi sulla Robusta, da Q grader?
“La licenza di assaggiatore Q-Grader viene rilasciata dopo avere superato diciannove esami tutti legati essenzialmente ad aspetti sensoriali della bevanda. Vengono assaggiati fino a settanta caffè Robusta al giorno, per una settimana, ed è molto dura ottenere la certificazione.
In termini qualitativi si provano Robusta speciali che vengono chiamati “fine” di differenti paesi quali Messico, Laos, Nicaragua, India, Brasile.. ed è molto interessante scoprire quali differenze sensoriali sono legati alle origini di questa specie che ricordiamo ha anche più varietà rispetto all’Arabica.”
Nel futuro delle coltivazioni probabilmente la Robusta avrà la meglio, essendo più resistente a cambi climatici e malattie delle piante: quindi come portare al livello degli specialty anche questa specie? Parliamo di Fine Robusta, ma quanto è diffusa?
“La Robusta e l’Arabica non crescono alle stesse altitudini, io le coltivo entrambe in Sicilia, ed è per me difficilissimo fare delle previsioni, ma se parliamo di cambiamenti climatici, il maggior problema che ho riscontrato in questi anni riguarda in generale i sistemi di coltivazione aperti o senza ombra. Usati ad esempio in Brasile dove si è perso quasi il 97% dell’Amazzonia Atlantica ma dove è in atto una chiara inversione di tendenza e in Uganda e Congo dove la deforestazione selvaggia invece è attuale. Sistemi aperti che dovrebbero a mio parere essere in qualche modo contrastati.
Ripiantare alberi da ombra in piantagione (spesso alberi nativi) comporta una lotta al cambiamento climatico insieme ad ulteriori vantaggi (riduzione dei concimi, protezione dalle avversità atmosferiche, possibilità di piantare leguminose o frutta internamente etc.) tuttavia, rallentare e invertire la traiettoria di questo fenomeno non può essere fatto dalla sola industria del caffè ma dipenderà dagli accordi governativi e richiederebbe un coordinamento più ampio e globale.”
Riguardo la diffusione della Fine Robusta si parla di un 5% a livello globale ma in netto aumento.”
Approfondiamo la questione del gusto italiano: bere caffè di qualità è possibile anche miscelando Arabica e Robusta. Perché ancora non si è fatta la giusta cultura e comunicazione attorno a questa specie secondo lei? Cosa frena la community rispetto a questa materia prima?
“Lasciando perdere il mio gusto personale – a parte la mattina, anche io preferisco a volte bere di più certe arabiche – non credo per me sia giusto sentenziare quale sia il migliore tra i due. Certamente è possibile bere Robusta di qualità così come Arabica scadente. Il Paese è indietro anche perché le torrefazioni si sono cullate troppo nel made in Italy, ma noi siamo stati i primi a miscelare differenti origini e possiamo ricostruire questa arte ma per fare ciò bisogna ripartire dalle basi e ritrovare un po’ di umiltà persa strada facendo.”