MILANO – Nuovo capitolo nell’affaire caffè-acrilamide. Una querelle scoppiata dopo la contesta sentenza di un giudice californiano, che ha imposto l’etichetta di cancerogenicità al caffè. A scriverlo è Clean Label Project, un’organizzazione no profit di Denver. Questa divulga ed educa sui rischi delle tossine nei cibi e sui valori nutritivi dei prodotti messi in vendita nel commercio.
Un’organizzazione dunque dalla mission per certi versi analoga a quella di Cert (Council for Education and Research on Toxins). La no profit che ha promosso vittoriosamente la causa davanti alla Corte Superiore californiana.
Clean Label Project scagiona il caffè
Le conclusioni di Clean Label Project sono diametralmente opposte: l’acrilamide nel caffè non costituisce in alcun modo un rischio per la salute umana.
Anzi: la sua concentrazione è nettamente inferiore a quella riscontrabile in molti altri alimenti comuni.
Ma entriamo nel dettaglio.
Testati nove campioni di vendite
La no profit ha fatto la spesa in un comune supermercato acquistando nove confezioni di marchi campioni di vendite. Ha quindi sottoposto le bevande preparate con ciascuno dei caffè acquistati a Ellipse Analytics, un laboratorio di analisi indipendente.
Il verdetto? I livelli di acrilamide misurati nei campioni di bevanda sono risultati bassissimi, in alcuni casi addirittura non quantificabili.
I risultati
La quantità media di acrilamide misurata in una tazza di caffè è stata di 1,77 microgrammi. Ciò a fronte di un quantitativo medio di acrilamide rilevato dalla stessa Ellipse Analytics nelle porzioni di patatine fritte delle più importanti catene di fast food americane nell’ordine 75,65 microgrammi.
Non è stato dichiarato il metodo di preparazione, ma come per tutte le ricerche realizzate negli Stati Uniti si tratta dell’unico sistema considerato, quello tradizionale americano.
Quindi con il caffè espresso da 25 millilitri contro i 200/300 millilitri dell’americano, la quantità di acrilamide dovrebbe essere ancora più esigua, vista la dose inferiore di bevanda erogata dalla macchina.
In proposito attendiamo che qualche centro di ricerca italiano svolga attività mirate sull’espresso italiano, in relazione alla quantità di acrilamide presente nella bevanda.
Più a rischio gli snack per i bambini
“I consumatori dovrebbero preoccuparsi semmai dei livelli di acrilamide presenti in altri prodotti di largo consumo” ha dichiarato la direttrice esecutiva di Clean Label Project Jackie Bowen.
Tra questi “le patatine fritte, i cracker, i biscotti, i cereali e persino alcuni snack per bambini. Mentre i test effettuati su nove referenze di caffè torrefatto hanno evidenziato quantitativi, in confronto, infinitesimali”.
In concentrazioni che, sino a pochi anni fa, le analisi non sarebbero riuscite nemmeno a rilevare.