MILANO – Resterà aperta a Palazzo Bovara in Corso Venezia 51 (MM1 fermata Palestro) fino al 14 giugno la mostra Express your Art/Italia, all’interno del Photofestival e del Photoweek con immagini di Giulio di Meo.
La rassegna fotografica è gestita da AlFoto, sponsorizzata da Gruppo Cimbali e curata da EyesOpen!Magazine.
Gli scatti esposti sono di Giulio di Meo, che ha immortalato per lo spettatore l’espresso, nei locali storici di tutta Italia.
Un estratto di un progetto più ampio, il Faema Express your art, ospitato fino a questo aprile al Museo della macchina per caffè di Gruppo Cimbali.
L’idea è quella di raccontare attraverso i ritratti di otto grandi fotografi il mondo Faema colto nei luoghi in cui si gusta il caffè espresso.
Questi luoghi ce li dipinge di Meo, incorniciando atmosfere, ambientazioni e storie. Le macchine del caffè sono antropomorfe, le tazzine, spesso ritratte singolarmente, una sola in mezzo a dei piattini vuoti, ci dicono tanto sugli habitué dei bar.
Spesso soggetti solitari, che vivono il loro caffè come un momento intimo che può esser condiviso al massimo tra due persone.
Le macchine Faema e gli uomini Faema, in pochi scatti preziosi.
Giulio di Meo ha un occhio che è un obiettivo fotografico, capace di far emergere l’essere umano dietro il macchinario. Lo abbiamo incontrato a Palazzo Bovara.
Faema Express your art è una sfida per un fotografo come lei, che si è sempre misurato con la realtà sociale: come ha saputo coniugare questa sua natura di reporter con un progetto che, di per sé, è di marketing, comunicazione?
“Innanzitutto ci vuole una premessa: io dico che, forse, non esiste in realtà la fotografia sociale, in quanto lo è tutta la fotografia. Quando ti ritrovi con la macchina fotografica in mano per raccontare le persone, tutto è rivolto alla vita sociale. Quindi, per me, è sempre stato semplice, grazie anche all’opportunità datami dalla Faema, di lavorare totalmente libero. Ho potuto raccontare come faccio sempre, quello che è il mito del caffè nel nostro paese. Quindi, contrariamente a quello che si potrebbe pensare parlando di un’operazione di marketing, a me è venuto tutto molto naturale. Ho lavorato soprattutto partendo da qualsiasi cosa che gravitasse attorno alla macchina, dalla quale poi si irradia un intero universo: da chi la utilizza, da chi ne fruisce fino a chi si trova nel bar solo per conversare col prossimo. “
Le sarà di sicuro capitato di incontrare, durante questa esplorazione, dei soggetti particolari. Se ne ricorda uno che l’abbia colpito maggiormente?
“Tanti. In ogni locale si trova un soggetto. Ma io più che gli individui mi ricordo dei momenti. Da fotografo fissi bene ogni scena, ogni fatto, e li metti in relazione. Tra tutti, mi viene in mente un bar di Torino, lo Stratta, molto piccolo, dotato di una E61. La Faema storica. È un locale antico, veramente stretto in cui a servire ci stavano due giovani. Ad un certo punto è arrivato un idraulico con il suo assistente e ciò ha reso gli spazi ancora più claustrofobici. L’idraulico era ficcato sotto, armeggiava, eravamo schiacciati uno contro l’altro. È stato un momento particolare. Poi mi ricordo di una ragazza, sempre in un bar torinese, con la quale si è creato un bel legame perché abbiamo passato le ore, io e lei, molto vicini. Io come un avvoltoio su di lei, riprendendola da dietro, per tempi così lunghi.”
Ed ecco che torna il sociale quindi: è stata una scelta quella di rispettare le dinamiche reali dei bar, andando a scattare durante l’orario di apertura.
“Certo. Non puoi raccontare la società mettendola in scena. Per me è così che dev’essere la fotografia, ritrarre senza manipolare. È stato essenziale riprendere a porte aperte.”
Che cos’è per lei il caffè?
“Sono poche le sostanze primarie per il mio organismo: toglimi vino, sigarette e caffè e avrai un uomo disperato. È la prima cosa che faccio la mattina, seguito da una sigaretta. E poi, dopo, caffè e sigaretta. Il caffè fa parte della mia persona, un po’ come la macchina fotografica. Sono quelle cose nella vita che sono delle certezze. Anche se non dovrei per la salute, non rinuncerei mai all’abbinamento fumo-caffè.”
Dei locali che ha visitato in tutta Italia, l’hanno affascinata quelli più classici, magari dotati di macchine antiche, oppure quelli innovativi con strumenti dal design più moderno?
“In realtà, per motivi diversi, ho trovato interessanti entrambi. Però devo riconoscere che, a livello emotivo, c’è un vincitore: i locali tradizionali, quelli piccoli, di provincia. Mi rievocano nostalgicamente i posti della mia infanzia: sono cresciuto in provincia, solo ora abito a Bologna. Entrare nei locali vecchio stile mi riporta a quando passavo i miei giorni dentro il bar di mio zio. L’atmosfera che si respira è molto diversa. Quando sapeva del nostro arrivo, il vecchio proprietario ci raggiungeva per intrattenerci con la storia della macchina del caffè.”
La mostra che resterà aperta fino al 14 giugno a Palazzo Bovara è solo un estratto di un’esposizione più ampia che ha coinvolto otto fotografi oltre te. Ce ne consiglieresti uno piuttosto che un altro?
“Una domanda difficile questa. Li ho visti tutti e ovviamente si tratta in tutti i casi di lavori molto validi. Sarei tentato di nominarle quelli che, stilisticamente, si avvicinano alla mia produzione e quindi al mio gusto. Però ce ne sono altri che sono molto lontani dal mio modo di fare fotografia e che mi hanno molto incuriosito. Ad esempio la ragazza romana, Beatrice Speranza, che ricama sulle foto. Assolutamente ne sono attratto, perché si tratta di un tipo di creatività totalmente all’opposto della mia. È stato bello vedere come lo stesso tema possa esser reinterpretato a seconda delle diverse sensibilità.”
Giulio di Meo ha colto per Faema l’anello mancate
Con una stretta di mano ci congediamo da Giulio di Meo, che saputo cogliere l’anello mancante tra la macchina e l’uomo: l’espresso.