giovedì 19 Dicembre 2024
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A Londra aspettando il visto Brexit, le testimonianze dei baristi italiani

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LONDRA – Lo hanno ribattezzato il ‘visto da barista’. È l’idea di offrire dopo la Brexit un permesso di due anni agli europei under 30 per lavorare in ristoranti, hotel e bar britannici. Una misura che punta a prevenire la crisi della manodopera straniera attesa nel 2019.

Per allora il Regno Unito avrà lasciato l’Unione Europea e l’ingresso nel paese per i giovani a caccia di fortuna diventerà un rebus. Il rischio è che scarseggino nei locali inglesi camerieri, cuochi, baristi e bartender.

Un paradosso per il settore Ristorazione e accoglienza che vive della forza lavoro europea. La conferma arriva dai numeri: in un anno secondo l’Office for National Statistics gli addetti sono aumentati di 50 mila unità. Nella maggior parte dei casi si tratta di ragazzi italiani, spagnoli, francesi e polacchi apprezzati in particolare nell’ambito della caffetteria.

Lo ha ribadito anche l’indagine Uk Coffe Report citata pochi giorni fa dal Times: il numero della caffetterie in Gran Bretagna sorpasserà quota 30 mila entro il 2025. Si stima così che ci sarà bisogno di 40 mila dipendenti in più.

Un piccolo esercito che facilmente si concentrerà nella capitale. A Londra del resto la parola ‘barista’ è entrata nel linguaggio comune soppiantando addirittura il tradizionale ‘barman’.

Ecco allora il dibattito sul ‘visto del barista’ che apre diversi interrogativi a cui dovrà dare una risposta l’Home Office, il dipartimento governativo che ha in gestione i flussi migratori

Posto che il visto al vaglio dal governo si basa sul modello Youth Mobility Scheme introdotto dal Ministero degli Interni per i giovani in arrivo da Australia, Canada e Nuova Zelanda, la domanda da farsi è: dopo due anni cosa accadrà ai ragazzi che hanno ottenuto il permesso?

Il governo centrale è consapevole di non avere mezzi per controllare i flussi e il timore è che si chieda a datori di lavoro, università e padroni di casa di segnalare gli irregolari. Un clima da ‘caccia alle streghe’ impossibile da immaginare ascoltando le storie di chi a Londra da barista o bartender vive da anni.

«Con Brexit? Ora invece che 100 curriculum ne arrivano 20»

«Mi ero iscritto ad Economia e Commercio ma non era la mia strada. Per arrotondare lavoravo nei weekend in un bar di Vimercate e mi son detto perchè non farlo a Londra?». Parte da questa semplice domanda la storia di Luca Missaglia, brianzolo di 28 anni, oggi Bar Manager nella catena di ristoranti AquaShard. Un’avventura fatta di gavetta e tanti sacrifici soprattutto nel primo anno di trasferimento.

«Sono partito senza conoscere la lingua e mi sono ritrovato a fare il lavapiatti in una pasticceria. La mattina andavo a scuola di inglese e la sera a lavorare. Vita sociale zero».

Ma l’impegno nella ‘terra promessa degli italiani’ viene premiato. «Prima sono diventato aiuto barman in un locale, poi Head Barman e alla fine manager. Oggi guido un gruppo di 38 persone e ho anche la fortuna di viaggiare molto. Poco tempo fa sono stato a Hong Kong».

Qualche perplessità su Brexit Luca la confessa. «Il giorno dopo il voto tutto lo staff era preoccupato. Abbiamo fatto una riunione spiegando che l’azienda avrebbe sostenuto chi voleva restare». L’effetto più evidente per  Luca è stato però un crollo delle nuove candidature. «Se un anno fa ricevevo 100 curriculum oggi ne ricevo 20. Nei prossimi anni non penso i datori di lavoro potranno più dire: ‘Tanto se te ne vai ne trovo altri mille’»

«Da barista a Londra, mi sono costruita una professione da zero»

«Doveva essere una vacanza estiva, è diventata una nuova vita». Da tre anni, Ilaria Giulia Piscopo, 32 enne di Acerra in Campania, vive a Londra con il compagno architetto. La si incontra da Caffè Nero, catena di caffetterie dove lavora come manager.

«Sono partita perchè dopo la laurea umanistica non trovavo un impiego a Roma. Non avevo mai lavorato in caffetteria e devo dire che è stata una scoperta, dopo due anni ho anche fatto un corso in università per approfondire il business management».

Vivere a Londra per Ilaria è un vantaggio sotto diversi punti di vista. «Qui la burocrazia funziona, i mezzi di trasporto sono efficienti e lo stile di vita è molto superiore a quello che potrei avere in Italia». Da cittadina del mondo però non si preoccupa troppo della Brexit.

Per due motivi:«Da una parte sarebbe un controsenso per un paese respingere lavoratori che pagano regolarmente le tasse, dall’altra vivo alla giornata e nel caso sarei pronta a cambiare. Non sarebbe la prima volta del resto»

«La carriera qui vola, in Italia tutto fermo»

«Sono a Londra da quattro anni, è una città che ti fa crescere». Alessandro Rabolini è volato in Regno Unito dalla provincia di Varese con in testa l’idea di imparare l’arte di gestire un bar. «In Italia mi sentivo fermo, vedevo tutto piatto – dice -. Qui invece posso confrontarmi con differenti culture, vivere la moltitudine di spettacoli, live music, eventi».

Oggi che lavora al Sexy Fish, noto ristorante di lusso, Alessandro è diventato Bar Manager. E a trent’anni è soddisfatto di aver fatto carriera.

«Ho imparato come gestire veramente un locale: dal back office, al gp count fino ai drink cost. Lavorare con una squadra multiculturale di 20 persone ti migliora e il mix tra il rigore manageriale inglese e l’accoglienza italiana funziona».

Al netto dello stress metropolitano Alessandro pensa di comprare casa a Londra. La Brexit non lo spaventa.

«Ci sarà sempre bisogno di persone nel settore. Fra 7 mesi potrò chiedere il doppio passaporto o il visto permanente. E la mia azienda è disposta a coprire le spese (£80 circa), mi aiuteranno anche con le pratiche burocratiche».

Non nega però le difficoltà per i giovani che partiranno tra due anni a negoziati conclusi.

«Sarà più complesso aprire gli account iniziali da quello bancario al Nin (National Insurance Number ndr). Quando arrivai feci tutto in 15 giorni, due ragazzi arrivati tre mesi fa ci hanno messo un mese».

«Consegnate i cv di persona ai manager e puntate a lavori con il service charge».

«Sotto Natale ho fatto le valigie e ho lasciato la mia Puglia. La vita di paesino mi aveva stancata». Lo racconta con entusiasmo Melina Notarfrancesco, 29 anni, il suo salto nel vuoto di 4 anni fa.

«In tre giorni dal mio arrivo, ho trovato lavoro e ho addirittura dovuto scegliere tra diverse proposte. Ho fatto esperienza come barista e cameriera in un pub che purtroppo è fallito e alla fine sono sbarcata da Donna Fugassa». Qui Melina ha trovato la sua dimensione: orari comodi,  uno stipendio e amicizie internazionali.

Di tornare indietro non se ne parla anche se non è certa di rimanere per sempre in Gran Bretagna. «Se il costo della vita dovesse aumentare ancora e noi europei diventassimo sgraditi penso cambierei, non mi spaventa l’idea». Nonostante le incertezze sul lungo periodo l’esperienza londinese per lei resta un must.

«Se ho consigli per i ragazzi in partenza? Consegnate i curriculum di persona ai manager dei locali, valorizzate le esperienze che avete nel campo della ristorazione, studiate la lingua e puntate ai lavori con il service charge. Le mance qui fanno la differenza a fine mese».

«Ai ragazzi dico partite ora ma niente avventure, serve un progetto»

Per fare ‘quello che voleva’ ha lasciato La Spezia tre anni fa dopo aver concluso gli studi in un Istituto alberghiero. Michele Venturini, 34 anni, dopo premi e concorsi vinti lavora come Bar Manager nel locale anni Quaranta Cahoots di Londra.

«Questa città permette di realizzarti a livello lavorativo ma se devo fare un bilancio il costo della vita è ancora troppo elevato. Per campar bene servono almeno 3500£ al mese e difficilmente la ristorazione ti permette di guadagnare tanto almeno all’inizio».

Sulla Brexit ha le idee chiare: sarà una complicazione soprattutto burocratica. «Faccio un piccolo esempio: ho da poco fatto richiesta per la licenza per vendere alcolici. Gli stessi impiegati mi hanno detto che ora serve il doppio della documentazione rispetto a prima».

Per chi lavora 12- 13 ore al giorno una problematica in più da gestire che però non deve fermare i più giovani.

«Il mio consiglio è di partire il prima possibile ma non all’avventura, serve un progetto ragionato. Non vedo il senso di scappare dall’Italia per finire a vivere in dieci in un bilocale mettendo via poco o niente».

«Ho un figlio di due anni, vorrei crescesse a Londra»

Dal mare cristallino di Porto Cervo alle strade trafficate di Londra solo per amore dei cocktail. Giovanni Spezziga, 39 anni, ha scelto di fare le valigie dieci anni fa per passione.

«Sono partito dalla Sardegna dove lavoravo in hotel, e ho iniziato dietro al bancone dei cinque stelle londinesi.

Pulivo i bicchieri, tagliavo la frutta e sistemavo il magazzino. Nel tempo sono diventato Head Bartender e dopo aver cambiato 2 o 3 volte catena alberghiera mi sono messo in proprio».

Giovanni che ha da poco ha fondato Shakers Eventi, società che si occupa di organizzare party, feste e manifestazioni legate all’arte del drink, a Londra vorrebbe restare.

«Ho un figlio di due anni – racconta – è nato qui e vorrei che ci crescesse. Brexit complicherà le cose.

Intaccherà i numeri della manodopera europea e per chi si occupa di import ed export di alcolici farà aumentare i prezzi ma non lo vedo come un ostacolo insormontabile. Londra è, e rimane, una città busy. Ha bisogno di forza lavoro e noi italiani siamo bravi».

L’Italia resta un sogno post pensione. «Mi vedo a tornare nella mia terra tra 20 anni, prendere una casetta in riva al mare e continuare a fare i cocktail nella tranquillità del mio giardino».

«Non so se è la città dei miei sogni ma qui ho trovato una famiglia»

«Vivo in una bella casa con un’amica, ho uno stipendio e mi mantengo da sola. Forse Londra non è la città dei sogni ma ti permette di realizzarli».  Claudia Saccente, 25 anni, viene dalla delusione di non aver trovato lavoro in Italia dopo la laurea triennale in Psicologia.

«Mi sono buttata così sulla ristorazione in mancanza di alternative. Direi che sono partita all’avventura. Dopo alcune esperienze in un paio di locali sono arrivata da Donna Fugassa e ho trovato, lo dico senza retorica, una famiglia».

Claudia oggi lavora nella caffetteria e bistrot assieme ad altri colleghi italiani. «Premetto che non ci auto-ghettizziamo anzi frequentiamo anche inglesi, però aiuta avere dei connazionali a fianco. Riduce il senso di isolamento in terra straniera.

Mi sento finalmente soddisfatta di quello che faccio e la Brexit non è un problema». Complice la giovane età per Claudia la vita è ancora un viaggio e fare la valigia una volta in più – dice – non le peserà.

«Qui ho l’indipendenza e un contratto a tempo indeterminato»

«Volevo essere indipendente. Così dopo il liceo artistico e una serie di esperienze a Roma e a Milano sono partito alla volta di Londra dove avevo accettato una proposta di lavoro».

Con un progetto ben preciso Stefano Agostino da 9 mesi lavora dietro al bancone del Savoy Hotel London. Vuole servire cocktail di qualità e imparare il mestiere. «La fortuna di lavorare in un hotel è la turnazione. Riesci ad avere orari più stabili rispetto a chi lavora in club o pub. Più di 8 ore però non te le toglie nessuno. Ci si ferma sempre di più».

Se l’impegno richiesto è sfibrante fa da contrappeso la stabilità economica raggiunta. «In genere i contratti nel settore sono a tempo indeterminato, c’è un periodo di prova di 3 mesi prolungabile a 6 e poi l’impiego è tuo. Fermo restando che puoi comunque lasciare quando lo desideri».

Per Stefano però la soddisfazione non è solo la paga e il potersi permettere un affitto in una delle città più care d’Europa, vince su tutto il rapporto con i colleghi. «In hotel siamo quattro italiani, uno spagnolo, un giapponese, tre slovacchi e un francese. Ci si confronta a livello di culturale ed è lì il bello. Di Brexit, dico la verità, parliamo poco. Ci sembra ancora molto lontana».

Diana Cavalcoli

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