MILANO – In un post sulla rubrica “Lo dico al Corriere” – rispondendo ai commenti inviati dai lettori (vedi il numero di Comunicaffè di giovedì 2 marzo 2017) – Aldo Cazzullo ha sparato a zero sulla recente chiacchieratissima apertura di un punto Starbucks in Piazza Duomo a Milano.
Riportiamo uno stralcio significativo del suo intervento:
(…) l’apertura in Italia di Starbucks come italiano la considero un’umiliazione. Perché Starbucks è il più clamoroso esempio al mondo di Italian Sounding: di prodotti che suonano italiani, ma non lo sono.
In tutto il pianeta, a cominciare dalla casa madre americana, il menu è scritto in italiano, dall’espresso al cappuccino. Ma non è caffè italiano, non è lavoro italiano. Sui pacchi in vendita c’è scritto “Caffè Verona”, e in piccolo si precisa: “Made in Seattle”.
I veri produttori italiani, da Illy a Lavazza, hanno tentato di rispondere aprendo le loro catene; hanno ottenuto qualche successo, ma non hanno le dimensioni per competere.
Starbucks è la più famosa coffehouse chain al mondo, con oltre 24.000 punti vendita in oltre 70 paesi. L’arrivo di Starbucks in Italia ha dovuto aspettare l’inizio del 2017. E ad esso sono susseguite le inevitabili polemiche contro uno dei marchi simbolo del capitalismo.
La risposta di Cazzullo ad alcuni lettori del Corriere mostra, d’altro canto, che non occorre essere attivisti no-global per nutrire dei sospetti nei confronti dell’apertura del punto Starbucks milanese.
Pur senza nutrire un’aperta ostilità alla globalizzazione, cioè alla comunicazione tra mercati geograficamente lontani, si finisce spesso per essere vittime della convinzione feticista che è sufficiente che un bene sia prodotto entro un certo territorio, l’Italia, con mani italiane e materie prime italiane perché esso acquisti magicamente qualità altrimenti non ottenibili.
Il caffè di Starbucks, o di qualsiasi altra catena straniera, non può essere “vero” caffè italiano.
Perché un prodotto sia indicato come “made in Italy” è necessario sia interamente progettato, fabbricato e confezionato in Italia. Poiché esiste una domanda per tali prodotti – poiché, cioè, esistono consumatori di prodotti italiani che non sarebbero soddisfatti senza quei tre requisiti – l’indicazione di “made in Italy” ha un’indubbia utilità.
Che, sia detto per inciso, avvantaggia le imprese che sono in grado di soddisfare quella domanda.
Ma i confini di ciò che possiamo considerare come “italiano”, anche al di là degli stringenti requisiti del “made in Italy”, sono più sfumati di quanto possiamo supporre. Un caffè espresso può essere considerato italiano se è prodotto con una miscela colombiana?
E se è preparato da una macchina fabbricata nel Regno Unito? E se è preparato da una macchina italiana fabbricata con pezzi importati dalla Cina? E se il barman che aziona la macchina fosse egli stesso cinese?
La risposta più sensata, mi sembra, è che queste domande siano perlopiù irrilevanti: un caffè è un “espresso italiano” se preparato con un certo tipo di macchina seguendo una certa procedura.
Ma allora non c’è ragione perché un espresso italiano non possa essere servito a Londra, New York, Shanghai o Johannesburg, qualsiasi sia la provenienza di chi lo fa, delle macchine con cui è prodotto e del ristorante in cui è servito.
Un fanatico del caffè italiano (come chi scrive) potrebbe ben sostenere che quello servito da Starbucks non sia un buon espresso. Altri potrebbero sostenere lo stesso del cappuccino.
Ma sarebbero preferenze di gusto che nulla hanno a che fare con considerazioni sull’italianità o no del prodotto. Nelle mani, nella terra, nelle macchine e nelle caffetterie italiane non c’è nulla di intrinsecamente più adatto alla produzione dell’espresso o dei suoi derivati.
Quello che consideriamo “italiano” – o americano, tedesco, cinese – non è scolpito nella pietra, ma varia col trascorrere del tempo, sotto la spinta dell’iniziativa individuale, degli incontri tra portatori di culture lontane, della lenta e graduale modificazione delle opinioni.
La globalizzazione è anche questo: circolazione non soltanto di merci ma anche di conoscenze su come produrre, di persone che sanno come farlo e che trasferiscono quelle conoscenze in altri luoghi, magari contaminandole con altre idee, o trovando vesti nuove con cui presentarle al pubblico.
E in effetti questo è esattamente quello che Starbucks fa: offrire prodotti di caffetteria tradizionale italiana come l’espresso o il cappuccino – che, peraltro, nemmeno ambiscono a essere il punto di forza del marchio – accanto ad altri come il Chai Latte o il Frappuccino. Di che nazionalità è questo brand? È italiano, americano? La domanda è poco interessante.
L’autarchia culturale, non meno di quella economica, è un ideale non soltanto poco auspicabile, ma anche impraticabile. Il solo modo per rinchiudere le culture è rinchiudere gli individui.
Se si aprono le barriere, si aumentano le possibilità di scambio – non soltanto commerciale – e sperimentazione di nuovi modi di vita, anche in un aspetto delle nostre vite apparentemente banale come la consumazione di una tazzina di caffè.
Non è nemmeno vero che Starbucks, quand’anche prendesse piede sul resto della penisola, condannerebbe necessariamente all’oblio i marchi italiani di caffè: li spingerà semmai a innovare, ad affinare la propria strategia di business e di marketing.
Starbucks non piace? La soluzione per il consumatore è semplice: rivolgersi ai bar tradizionali, o prepararsi da solo un caffè con la sua Bialetti.
Quello che invece potranno fare i competitors lo ha ben sintetizzato Massimiliano Pogliano, amministratore delegato di Illycaffè (azienda che a sua volta ha saputo espandersi sul mercato americano):
“Starbucks in Italia?È molto interessante: sono anni che rinviano questo arrivo. Il nostro compito è comunicare chi siamo e cosa facciamo, poi il consumatore sceglierà.
Non si vince cercando di fermare la concorrenza ma cercando di convincere il consumatore a scegliere te”.
Una piccola, inascoltata lezione di mercato di cui in Italia dovremmo far tesoro.
Federico Morganti