MILANO – Noi umani amiamo il dolce. Difficilmente resistiamo davanti a una fetta di torta o a un mango ben maturo. È talmente importante per noi che “dolce” è diventato un aggettivo che va ben oltre la descrizione di un’esperienza gustativa. E dobbiamo tenere conto anche dei dolcificanti.
Perché ci piace?
Dei cinque gusti fondamentali, il dolce è quello con la soglia di percezione più alta: per esempio, rispetto a quelle amare, le sostanze dolci devono essere fino a diecimila volte più concentrate per essere percepite. Per comprendere questo fenomeno dal punto di vista adattativo ed evolutivo basta mettersi nei panni di uno dei primi uomini.
Preferireste essere molto sensibili alle sostanze amare perché spesso sono anche tossiche (ad esempio l’amigdalina e altri veleni vegetali di cui abbiamo parlato in questo articolo), così da percepirle immediatamente ed evitarle. Il dolce invece è un indicatore nutrizionale, che aiuta a distinguere un frutto maturo da uno acerbo per garantirsi l’assunzione di cibi sufficientemente concentrati da soddisfare il fabbisogno energetico.
Questo sistema funzionava benissimo in un mondo in cui la ricerca o la produzione di cibo erano le attività principali e in cui la fame era ben conosciuta. Il problema si pone invece per noi che viviamo nel terzo millennio nel “primo mondo”.
I cibi dolci sono calorici. E per noi fortunati per cui la mancanza di cibo non è un problema, il fatto di non esserci liberati della nostra ancestrale passione per il dolce si traduce in dilaganti obesità e diabete.
Come percepiamo il dolce
La soluzione sta nel trovare sostanze capaci di produrre la sensazione del dolce senza apportare calorie. Sono decenni che si cerca di capire come avvenga la percezione della dolcezza ma ancora oggi il meccanismo non è del tutto chiaro. Di certo, però, può essere approssimato a un modello “chiave e serratura”, in cui la sostanza dolce gioca il ruolo della chiave e i recettori distribuiti sulla nostra lingua quello della serratura. Se chiave e serratura combaciano, il meccanismo scatta e attraverso i nervi il nostro cervello riceve il messaggio che qualcosa di dolce si trova nella nostra bocca.
Di recettori ce ne sono tanti, ma sembra che quelli del dolce siano tutti dello stesso tipo, quindi tutte le serrature sono uguali. Le chiavi invece possono essere molto diverse tra loro nella loro struttura generale, l’importante è che la parte che entra nella serratura abbia la giusta distribuzione di solchi e dentelli.Così, si può immaginare un’infinita quantità di sostanze con le strutture più varie che possono funzionare da dolcificanti perché i loro “solchi e dentelli” – in questo caso le varie parti della molecola – sono in grado di legare e attivare i recettori.
Alcuni sono veri e propri zuccheri come il saccarosio – lo zucchero da tavola, il glucosio e il fruttosio; altri sono “polioli” come il sorbitolo e lo xilitolo usati nelle gomme da masticare. Anche se sono tutti dolci, si differenziano tra loro per il contenuto calorico, il potere dolcificante e gli effetti sul nostro metabolismo. Quello che hanno in comune è che per essere percepiti come dolci devono essere assunti in grande quantità, e per questo sono molto calorici.
Le alternative
Dal gruppo dei dolcificanti calorici si distaccano nettamente quelli chiamati “edulcoranti intensi”. Hanno un potere dolcificante talmente alto che dosi minime sono sufficienti a dare la sensazione del dolce e, di fatto, non apportano quasi nessuna caloria. Alcuni di questi composti non si trovano in natura, ma vengono sintetizzati in laboratorio.
La saccarina, l’acesulfame K, l’aspartame e il sucralosio, per esempio, sono stati scoperti a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 da chimici che lavoravano in laboratorio per sintetizzare sostanze con tutt’altre finalità. Leccandosi le dita nello sfogliare un libro si sono accorti dell’eccezionale potere dolcificante delle molecole che avevano sintetizzato, tra le 100 e le 600 volte più dolci del saccarosio.
Quando poi si è scoperto il meccanismo di funzionamento del recettore del dolce, c’è chi ha provato a costruire delle sostanze che si adattassero al recettore meglio di quanto non facessero quelle fino ad allora conosciute, “chiavi” che facessero scattare immediatamente la “serratura”. A partire dall’aspartame, sono stati così inventati l’alitame, il neotamo e l’advantame, rispettivamente 2’000, 8’000 e 20’000 volte più dolci del saccarosio.
Siamo però in un’epoca in cui l’artificiale piace sempre meno, mentre il “naturale” raccoglie un pubblico sempre più ampio. Non sono poche le aziende che si sono impegnate a scoprire o ri-scoprire sostanze dolci naturalmente presenti nelle piante.
La più famosa è la stevia, particolarmente in voga dopo che la Coca-Cola ha iniziato a usarla nella sua nuova versione life. 250 volte più dolce dello zucchero, è composta da glicosidi steviolici, naturalmente presenti nella pianta sudamericana Stevia rebaudiana.
Le popolazioni indigene del Brasile e del Paraguay la utilizzano da migliaia di anni per dolcificare infusi e alimenti, ma la chimica occidentale ha imparato a conoscerla solo a metà del secolo scorso.
Dopo anni di polemiche e controversie riguardo alla sua potenziale pericolosità per la nostra salute, è stato verificato che la stevia non è genotossica, e la EFSA (European Food Safety Authority) ne ha autorizzato l’uso come additivo alimentare al di sotto delle dosi giornaliere raccomandate.
La glicirrizina è la molecola responsabile del sapore dolce della liquirizia. È molto dolce, ma per il suo retrogusto è usata solo in preparazioni particolari. Dalla corteccia della pianta sudafricana Sclerochiton ilicifolius si estrae invece la monatina, uno dei più potenti dolcificanti naturali, 3’000 volte più dolce del saccarosio. Non è ancora utilizzata come additivo perché l’estrazione ha un costo insostenibile a livello commerciale.
Anche la miracolina si estrae da una pianta africana, il Synsepalum dulcificum o “miracle berry”. Non è dolce di per sé, ma altera il funzionamento delle nostre papille gustative, facendoci percepire tutto un po’ più dolce di quanto non sia. Va ancora studiata, e per questo in Europa non ha ancora ricevuto l’approvazione come additivo alimentare.
La brazzeina e la pentadina sono proteine dolci che si ottengono dalla Pentadiplandra brazzeana e sembrano prive del retrogusto metallico di altri dolcificanti. Anche la taumatina e la monellina sono proteine estratte dalle piante (dal katamfe, e dalle bacche della serendipità) migliaia di volte più dolci dello zucchero. Mentre la prima è usata anche in Europa, la seconda per il momento è stata approvata solo in Giappone.
Non sappiamo perché le piante producano tutte queste sostanze non zuccherine che noi percepiamo come dolci. Alcune hanno poteri antibatterici o antifungini, ma molte hanno funzioni biologiche ancora sconosciute. Di certo non è un adattamento mirato a stimolare il palato degli animali; anche tra specie strettamente imparentate si trovano grandi differenze nella capacità di percepire i sapori. Per esempio la taumatina e l’aspartame, che per noi e le scimmie antropomorfe sono dolcissimi, sembrano non avere nessun effetto sulle nostre cugine scimmie catarrine.
A prescindere dal perché lo fanno, ancora una volta le piante si dimostrano una fonte inesauribile di soluzioni per i nostri problemi. Dovremo proteggerne la diversità, studiarne la chimica e esplorare gli usi che ne vengono fatti nelle ricette tradizionali da tutto il mondo. Solo così non rimarremo delusi dalle infinite soluzioni che le piante sapranno proporci.
Fonti e letture:
– Immagine di copertina: Shutterstock
– Hayes, J. (2007). Transdisciplinary Perspectives on Sweetness. Chemosensory Perception, 1 (1), 48-57 DOI:10.1007/s12078-007-9003-z
– Tandel, K. (2011) Sugar substitutes: Health controversy over perceived benefits. Journal of Pharmacology and Pharmacotherapeutics, 2(4), 236. DOI: 10.4103/0976-500X.85936
– Sugar and sweetener guide
– I pericoli della dolcezza di Ilaria, qui su Scientificast.it