di Susanna de Mottoni*
Non chiamatelo “caffè d’orzo”, chiamatelo “bevanda all’orzo”! Perché annacquare, è proprio il caso di dirlo, il buon nome di un prodotto di qualità mischiandolo con quello di altri con cui nulla ha a che vedere?
Ci si dà la zappa sui piedi: il risultato è solo quello di confondere le idee al consumatore e di danneggiare l’immagine del vero caffè.
È l’invito lanciato dal conte Giorgio Caballini di Sassoferrato (FOTO in alto) il mese scorso su queste pagine. Nel suo sintetico intervento ha fornito riferimenti normativi, motivazioni e propositi per una nuova azione a sostegno e a tutela del caffè.
Non si tratta di una crociata contro l’orzo, bensì di una mossa per contrastare il dilagare di bevande che vengono commercializzate come “caffè di…”, sfruttando il buon nome del chicco pur non avendoci niente a che fare.
Sì, perché in commercio ci sono i “caffè”, per così dire…, più fantasiosi: c’è quello di farro e quello di mais, quello di fichi e quello di vinacce, quello di soia e quello di ghiande… e chi più ne ha più ne metta!
È evidente che in tutti i casi sopracitati la definizione “caffè di…” è impropria ed è proprio questo il punto.
“Se si tostano le ghiande, posso solo pensare che si produca un caffè per i mangiatori di ghiande, i suini – ironizza Caballini -. Scherzi a parte, non ho nulla contro queste bevande purché non si chiamino “caffè””.
Che cosa dice la legge
E a stabilirlo vi è un preciso riferimento normativo: “Si intendono caffè crudo o caffè verde – ricordava la nota del presidente del Gruppo Italiano Torrefattori Caffè citando il Regolamento per la disciplina igienica della produzione e del commercio del caffè e dei suoi derivati D.P.R. 16/02/1973 n.470 – G.U. 08/08 n.204 – i chicchi privati dell’endocarpo pergamino appartenenti ad una delle seguenti specie del genere coffea: coffea arabica, coffea canephora (conosciuta come robusta), coffea liberica; per caffè torrefatto si intende il prodotto ottenuto dalla torrefazione del caffè crudo appartenente alle specie di cui sopra”.
Va da sé che se si tosta orzo, cicoria, ghiande… questi non possono presentarsi come “caffè di”.
Il consumo di surrogati del caffè, a dire il vero, non è una novità. Miscele succedanee esistono praticamente da quando ha iniziato a diffondersi il caffè stesso.
Vi era però una motivazione economica: costavano molto meno e quindi erano, per così dire, i “caffè dei poveri”.
In questa prospettiva, significativo è stato il periodo delle guerre; scrive nel 1949 Paul Ciupka in Kaffee, Kaffee-Ersatz und Kaffee-Zusatz: “In Europa, quando il consumo di caffè, soprattutto quello quotidiano, prese sempre più piede, la maggior parte della popolazione si trovò a dover affrontare un sacrificio economico troppo grande. Di conseguenza il caffè iniziò ad essere sostituito o allungato con prodotti più economici e soprattutto locali”.
Fu così che il consumo quantitativo dei surrogati (soprattutto cicoria, orzo, malto e fichi) divenne maggiore di quello del caffè stesso.
Oggi però le ragioni che spingono a consumare surrogati del caffè sono ben diverse, dal momento che costano come o più del caffè stesso.
Motivazioni salutistiche
Le motivazioni sono salutistiche e fanno leva su alcuni stereotipi ancora radicati sugli effetti collaterali del caffè e della caffeina.
C’è chi continua a collegarli a diabete, problemi digestivi, malattie cardiovascolari… nonostante siano numerosi gli studi scientifici che hanno smentito queste correlazioni.
“Chi opta per queste bevande nella maggior parte dei casi non vuole assumere caffeina – nota Caballini di Sassoferrato-. Ma sarebbe sufficiente bere un buon decaffeinato”.
“Diverso il discorso per bevande come il caffè al ginseng – prosegue -. In questo caso la definizione è corretta: si tratta di un caffè in cui viene aggiunta una percentuale di un altro prodotto. Per cui stiamo parlando di un caffè al e non di un caffè di”.
Non una contrapposizione nei confronti del prodotto in sé, ma di come viene commercializzato, un dettaglio lessicale e di forma dietro cui c’è un elemento sostanziale.
Fare un primo passo concreto a tutela del vero caffè è semplice: “Io ho già chiesto ai miei agenti di eliminare la parola “caffè” e sostituirla con “bevanda all’orzo” – conclude il conte Caballini -. Un accorgimento pratico che tutti potrebbero adottare per far sì che la propria clientela non usi il termine “caffè” in modo improprio, facendosi parte attiva di questa campagna di sensibilizzazione”.
Susanna de Mottoni*
*pubblicato sul numero di luglio del Notiziario del Gruppo Italiano Torrefattori di caffè