PARIGI – È successo qualche mese fa. Giuseppe Lavazza in persona, 51 anni appena compiuti, vicepresidente del gruppo, si è intrufolato in un supermercato torinese. «Mi piace vedere come la gente interagisce con lo scaffale». Quello del caffè, ovviamente. «Alcuni arrivavano e compravano. Poi si è presentata una donna, che cincischiava. D’un tratto ha afferrato una confezione di Lavazza, poi l’ha rimessa al suo posto e ha preferito la concorrenza». Lui non ha sentito storie. «Mi sono presentato, ho voluto capire perché avesse fatto quella scelta. Alla fine l’ho accompagnata alla cassa: gliel’ho voluto offrire io il Lavazza». Sorride, a Parigi, nello stand aziendale al Roland Garros, che quest’anno è stato un po’ piovoso. Ma è sempre un bel vedere.
Lavazza è partner e fornitore di caffè dei quattro tornei del Grande Slam. A cosa si deve l’interesse del marchio per il tennis?
«Questo sport ha un’audience bilanciata, multigenerazionale. C’è il tifo, ma anche il fair play».
Strano non aver puntato sul calcio…
«Ma lì non si ritrovano le stesse caratteristiche. È un target più maschile, meno trasversale. E poi la gente va allo stadio a vedere la partita e torna. Qui, nei tornei come il Roland Garros, invece, si resta tutto il giorno, si prende del tempo. Anche per un caffè».
In Francia siete di casa. Avete appena comprato Carte Noire. Soddisfatti?
«Sì, siamo diventati leader assoluti in questo mercato. Abbiamo investito 700 milioni».
Modificherete il gusto di Carte Noire? Lo renderete più italiano?
«No. In Francia è un marchio leader. Non abbiamo la presunzione di venire qui e insegnare come si produce e si vende il caffè. Intanto, abbiamo acquisito anche il marchio danese Merrild e rilevato il nostro distributore in Australia».
Siete ormai il sesto produttore di caffè del mondo: un’azienda familiare contro multinazionali come Nestlé. Davide contro Golia. Quali le prossime prede?
«Queste tre acquisizioni sono state importanti: bisogna mandarle a regime».
A un certo momento anche la famiglia Lavazza cederà alle sirene della Borsa?
«Da qui a 3-4 anni sicuramente no. E se mai lo faremo, sarà nell’ottica di un’operazione industriale e non finanziaria. Non sarà per fare cassa».
A quale livello di fatturato volete arrivare?
«Abbiamo chiuso il 2015 con 1.473 milioni di euro. L’obiettivo è raggiungere i due miliardi da qui al 2020. È una soglia di fatturato che ci può consentire di restare indipendenti: per non finire preda di qualche concorrente più grosso».
Lei fa parte della quarta generazione della famiglia Lavazza. Ma in Italia non tutti sanno che dietro al marchio c’è una famiglia. E ancora meno che proviene dal Piemonte. Quanto è torinese Lavazza?
«C’è tutto di torinese. Il nostro understatement. La tenacia, l’orgoglio di costruire qualcosa di speciale, la passione per il lavoro. Il fatto che vogliamo onorare i nostri impegni. E il terrore dei debiti».
Ma è vero che conservate ancora la cambiale che permise a Luigi Lavazza di fondare l’impresa nel lontano 1895, in una drogheria al 10 di via San Tommaso?
«La teniamo esposta nella sala del consiglio, al quinto piano, nella sede centrale. Ma ancora più interessante è la lettera con cui Luigi descrisse il fatto che restituì i soldi presi in prestito nei tempi dovuti. E con gli interessi d’uso, come scrisse lui».
La tradizione è un valore importante. Ma la sua famiglia non si è mai tirata indietro neanche davanti alle innovazioni. Ad esempio, riguardo alla pubblicità…
«Fu già mio nonno Giuseppe, negli Anni 60, a sviluppare un rapporto con il pubblicitario Armando Testa, quando fecero la campagna per il Paulista. Era un prodotto al 100% brasiliano. E allora mio nonno portò Testa in quel Paese, a visitare le piantagioni, per fargli capire di cosa si parlava. Poi lui, da grande creativo, tornò in Italia e si inventò la storia di Caballero e Carmencita, che non aveva niente a che vedere con il Brasile, era un gaucho argentino. Si fece influenzare da contaminazioni di ogni tipo, perfino i B-movie, i film di serie B del cinema italiano. Fu un grandissimo successo».
Negli Anni 70 arrivò Nino Manfredi. Chi ebbe l’idea?
«Mio padre Emilio, ancora con Testa. Ma all’inizio lo spot non funzionava. Allora crearono Natalina e lì fecero il botto».
Gli Anni 90 invece, furono quelli dei calendari d’autore. Lì chi ci mise lo zampino?
«Io. Decidemmo di ingaggiare un fotografo importante. La scelta cadde su Helmut Newton, un artista forte, che sapeva tirare fuori forti dosi di erotismo e trasgressione. Scattò le sue foto, interpretando il nostro prodotto, proprio qui, a Parigi. Io poi le mostrai a mio padre e a mio zio Alberto. Rimasero colpiti. D’altra parte noi fino a quel momento avevamo fatto calendari con macinini e chicchi di caffè. Ma alla fine dissero: sì, ok, niente male. Facciamo anche questo calendario».