di Fabiano Schivardi (economista)*
Sul sito di commenti economici lavoce.info è uscito questa analisi sull’acquisto da parte della lavazza della società francese carte Noire, leader del caffè in Francia. Ve lo proponiamo.
Dalla famiglia ai manager
Per una volta, non ci troviamo a commentare l’ennesima impresa italiana passata sotto il controllo straniero, ma il contrario. Lavazza ha comprato la Carte Noire, uno dei leader nel mercato del caffè in Francia.
Con questa acquisizione, lo storico marchio torinese cerca la sua collocazione in un mercato mondiale del caffè caratterizzato da due grandi attori (Nestlè e JDE) e da una schiera nutrita di produttori più piccoli.
Il settore si sta consolidando e Lavazza si candida a essere uno dei marchi che farà da aggregatore, piuttosto che essere acquisito. Auguriamoci che il progetto abbia successo.
Ma cosa caratterizza le imprese italiane che hanno assunto un ruolo di “predatore” piuttosto che di “preda”?
In cosa sono diverse Fiat, Lavazza, Luxottica da una parte e Pirelli, Italcementi, Safilo dall’altra? Ovviamente, ogni esperienza fa storia a sé e le generalizzazioni vanno sempre prese cum grano salis.
Ma due aspetti sembrano cruciali nelle esperienze dei predatori.
In primo luogo, in Italia la stragrande maggioranza delle imprese sono a controllo familiare. Ma, tipicamente, nelle aziende “predatrici” la famiglia ha affidato la gestione dell’impresa a manager professionali assunti sul mercato.
Ovviamente, la famiglia siede nel consiglio di amministrazione e partecipa alla formulazione e alla messa in atto dei piani strategici, ma da una posizione non operativa.
Il nuovo contesto globalizzato presenta sfide inedite per le nostre multinazionali tascabili. Non è per niente ovvio che le competenze e le visioni strategiche dei membri della famiglia siano quelle giuste per far navigare le imprese nell’oceano della globalizzazione: meglio affidarsi a manager che hanno provato sul campo le loro capacità.
Visione del mercato e strategie
Il secondo aspetto è una chiara visione di un settore che si sta consolidando e nel quale la dimensione attuale, magari adeguata quando il mercato di riferimento era prevalentemente quello nazionale, non è più sufficiente per competere a livello internazionale.
L’amministratore delegato di Lavazza, Antonio Baravalle, aveva già annunciato qualche anno fa la necessità di crescere per poter sopravvivere in un mercato destinato a essere dominato da pochi player.
L’esperienza di riferimento era quella del mercato della birra, dove tutti i piccoli produttori sono stati assorbiti da pochi grandi gruppi. Data questa visione, le alternative sono prepararsi per fare da polo di aggregazione per altri “piccoli” marchi e diventare uno dei “grandi” o vendere.
Lavazza ha deciso di provare a seguire la prima strada e ha orientato le scelte strategiche verso questo obiettivo. L’esperienza ricorda molto quella della Fiat, dove Sergio Marchionne ha sempre dichiarato la necessità di raggiungere una scala produttiva adeguata, pena la scomparsa.
Anche in quel caso, il piano di sviluppo è stato guidato da quell’obiettivo, che ha portato alla creazione del gruppo Fca (guarda caso, Baravalle ha lavorato a fianco di Marchionne fino al 2007).
Senza questa consapevolezza, il destino di una impesa di medie dimensioni in un settore che si sta consolidando è segnato. Tutto bene quindi? È troppo presto per cantar vittoria.
Anche dopo l’acquisizione, Lavazza ha un fatturato di poco più di un decimo della Nestlè (solo nel mercato del caffè).
Il processo è quindi solo all’inizio. Il settore continuerà a concentrarsi e la partita è ancora tutta da giocare.
Ma almeno, la Lavazza ha segnalato che ci vuole provare. Quali dovrebbero essere i prossimi passi?
Dopo l’apertura della gestione a manager esterni, sarà necessario aprire anche il capitale. Lavazza è una società non quotata completamente controllata dalla famiglia originaria.
L’acquisizione di Carte Noire è stata fatta in parte con liquidità e in parte con un prestito da un pool di banche. Per diventare uno dei global player, tuttavia, serviranno risorse ingenti.
Aprire il capitale, possibilmente con la quotazione in borsa, appare come la scelta più naturale. Permetterebbe anche alla famiglia Lavazza di diversificare il proprio portafoglio di attività, consentendo all’azienda di prendersi i rischi che i processi di crescita necessariamente comportano, e che gli imprenditori familiari, con gran parte della loro ricchezza investita nel business di famiglia, raramente sono disposti a correre.
Chi è l’autore*
FABIANO SCHIVARDI
Schivbardi È titolare della Rodolfo Debenedetti Chair in Entrepreneurship presso l’Università Bocconi. Si interessa di economia industriale e del lavoro, focalizzandosi in particolare su produttività e demografia d’impresa.
I suoi lavori recenti considerano gli effetti della struttura dimensionale e proprietaria sulla performance delle imprese. In precedenza ha insegnato presso la LUISS e l’università di Cagliari.
Dal 1998 al 2006 ha lavorato al Servizio Studi della Banca d’Italia, dove è stato responsabile dell’Ufficio Analisi Settoriali e Territoriali dal 2004. Ha conseguito il Ph.D. in Economia presso la Stanford University e la laurea e il dottorato presso l’Università Bocconi.
È fellow dell’Einaudi Institute of Economics and Finance (EIEF), dell’IGIER e del CEPR. I suoi saggi sono stati pubblicati su riviste internazionali e nazionali.
Redattore de lavoce.info.