di Paolo Griseri*
TORINO. Tacchi, minigonna, il sostegno di un tavolino da bar tra le gambe. La modella guarda imbronciata l’obiettivo mentre sorseggia il caffè in un bistrot parigino. L’immagine colpisce. Non certo per la tazzina, pure in primo piano.
Emilio Lavazza aveva visto quello scatto di Helmut Newton in anteprima, nell’autunno del ‘92. Alberto, suo cugino, ricorda oggi la scena: «Eravamo qui, in questo bar dove la Lavazza è nata 120 anni fa. Portammo le fotografie di Newton per il calendario, il primo di una serie di successo che continua ancora oggi».
Alberto descrive la reazione del cugino: «Emilio guardò la fotografia. Non fece una piega, deglutì e approvò in silenzio». Non fa una piega: così dicevano le sartine torinesi di fine 800, per raccontare dei loro abiti apprettati, impassibili anche nelle giornate di vento e pioggia.
La frase di Emilio, allora il patriarca, è la sintesi del successo della famiglia del caffè torinese: il segreto è nella miscela chimica tra tradizione e innovazione, rispetto delle radici e rottura dei tabù.
Per una famiglia piemontese osservante, che ha ammesso le donne ai vertici solo alla sua quarta generazione, il salto al calendario di Helmut Newton è stato come il tuffo di Felix Baumgartner dalla stratosfera.
Poi, rotto il ghiaccio, tutto è stato più semplice: «Quando sono arrivati gli scatti di David LaChapelle, nel 2002, nessuno si è scandalizzato» racconta Francesca, responsabile della comunicazione.
L’immagine di La Chapelle, una modella nuda coperta solo dal marchio del caffè che «più lo mandi giù, più ti tira su», campeggia sulla parete dei ricordi del bar di via San Tommaso. I sei eredi di una delle famiglie di successo del capitalismo italiano stanno seduti intorno al tavolo. Congiunzione stellare inusuale: è assai raro incontrare tutti i Lavazza nella stessa tazzina.
Tre uomini e tre donne intorno al tavolo. Alberto, presidente, 75 anni, unico esponente della terza generazione, figlio di Pericle, a sua volta uno dei figli del fondatore, Luigi. Del ramo di Pericle fanno parte i figli di Alberto, Marco (38) vicepresidente, Antonella (43) e Manuela (28), la più giovane, l’ultimo ingresso nel gruppo dirigente Lavazza. Il ramo dei cugini discende dal fratello di Pericle, Beppe.
È il ramo dei frontman della famiglia. Emilio, figlio di Beppe, morto del 2010, è stato per decenni il motore dell’azienda. A lui si devono le innovazioni del prodotto ed è dal suo personale rapporto col pubblicitario torinese Armando Testa che sono nati prima gli spot con Carmencita, poi quelli con Nino Manfredi e la lunga serie del Paradiso di Tullio Solenghi e Paolo Bonolis.
Oggi il figlio di Emilio, Giuseppe (50), il più anziano della quarta generazione, divide col cugino Marco la responsabilità operativa della gestione. Alla sorella di Giuseppe, Francesca (46), il coordinamento della comunicazione e pubblicità.
La miscela dei due rami della famiglia serve a garantire continuità. Per tutti parla Giuseppe: «Ci siamo dati regole precise che rispettiamo. La principale è che ciascuno svolge il suo ruolo e tutti lavoriamo per l’azienda. La Lavazza, in ogni caso, viene prima. Sono regole non scritte. Nei prossimi anni metteremo nero su bianco».
È logico: la quinta generazione si annuncia più numerosa della quarta. I discendenti oggi sono già otto e il numero è destinato a crescere.
Problemi del capitalismo familiare? «Ma anche vantaggi. La famiglia è un asset importante. Bisogna saperlo valorizzare» spiega Marco, vicepresidente con delega all’innovazione. «In America anche in questo sono più avanti. Hanno incominciato ad aprire i consigli di amministrazione delle aziende familiari agli esterni».
I Lavazza hanno seguito la regola. E hanno affidato l’incarico di amministratore delegato a un giovane manager preso sul mercato, Antonio Baravalle, un passato alla guida dei brand del gruppo Fiat: dall’Alfa all’arabica.
La famiglia è un asset, come dice Marco, perché ha la forza dell’orgoglio del proprio passato. E il passato è fatto di tanti piccoli e grandi episodi. «Ricordo quando venivo da bambino in questa stanza e giocavo saltando sui sacchi di caffè» dice Alberto.
È toccato ad Antonella, che sta costruendo il museo dell’azienda ed è presidente della finanziaria di famiglia («da noi le donne tengono la cassa» scherzano i maschi), andare a rovistare nella lunga storia che comincia a fine 800 quando Luigi, figlio di Battista Lavazza, abbandona la terra di Murisengo, sulle colline astigiane, si fa prestare i soldi dalla cassa di mutuo soccorso e mette in piedi a Torino la prima drogheria in quello che oggi è il bar di via san Tommaso.
Qui arriva il primo chicco, qui si scatena il big bang, la prima grande innovazione: la miscela. Nessuno prima aveva venduto il caffè combinando l’arabica con altre specie come la robusta e la liberica.
Le testimonianze di quell’età dell’oro sono scarse. Manuela, l’ultima arrivata, fresca di laurea e con una carriera da sciatrice («sono anche entrata nell’esercito») è andata a pescare a Murisengo «il certificato di nascita del bisnonno: il parroco è andato a rovistare in canonica, non ci speravamo più».
Antonella e Manuela parlano nel cantiere di via Pisa, a Torino, alle spalle del vecchio mercato dei fiori. Qui, sull’area di un’antica centrale Enel sta nascendo il nuovo quartier generale Lavazza. Oltre agli uffici avrà il museo, un centro di incontro, ovviamente un bar. Meno prevedibile la presenza di una basilica paleocristiana, plausibilmente l’antica chiesa di San Secondo che sorgeva sulle sponde della Dora.
«Questo investimento dimostra quanto crediamo nell’Italia e nella nostra città» spiega Giuseppe Lavazza visitando il cantiere: «Non si tratta solo di scommettere sulla ripresa del Paese, ma anche di riconoscere che la nostra azienda, presente ormai in tutto il mondo, è inscindibilmente legata ai suoi luoghi di origine».
Al punto che nei mesi scorsi, nel mezzo di una vertenza sindacale contro il piano di ristrutturazione aziendale, i dipendenti dello storico stabilimento di Settimo, alle porte di Torino, avevano accusato i vertici di voler «delocalizzare»: in Piemonte.
E si torna così al carattere glocal, il vero dna dei Lavazza. Giuseppe gira il mondo per comperare ai prezzi più convenienti la materia prima, Francesca tratta con le agenzie di Londra e New York le campagne di comunicazione, decide coi migliori fotografi del mondo il messaggio dei nuovi calendari.
Eppure, visti qui, tutti insieme, i Lavazza delle nuove generazioni hanno mantenuto l’aroma di antico. Francesca ricorda che «Emilio entrava nei bar per verificare se i clienti erano soddisfatti e se i baristi seguivano le nostre indicazioni sulla preparazione del caffè».
«Emilio faceva di peggio» aggiunge Alberto «entrava nei supermercati e si faceva spiegare dai clienti perché non avevano scelto il nostro caffè». Giuseppe, ancora oggi, si comporta allo stesso modo: «Ero davanti allo scaffale e una signora, di fianco a me, è rimasta incerta poi ha scelto il prodotto di un concorrente. Allora non ho resistito. Le ho detto: “Signora, sono Giuseppe Lavazza. Le consiglio di scegliere il nostro caffè. Anzi per questa volta glielo regalo. Vedrà, non se ne pentirà”». Perché l’ha fatto? Non sarà quella signora a far schizzare il suo fatturato: «Lo so. Ma è più forte di me. In quel pacchetto c’è la nostra storia».