La raccolta del caffè è cominciata tardi quest’anno in Costa Rica. Da dicembre a febbraio, l’estate ha portato più pioggia che sole.
Mentre dall’altra parte dell’Atlantico gli europei combattevano con un inverno inusualmente caldo e secco, senza neve sulle Alpi, qui il terreno impregnato d’acqua e il cielo plumbeo ha ritardato la maturazione dei preziosi chicchi e ha inondato i turisti in cerca di sole.
Non è la prima volta, spiega Sergio Picado Garro, proprietario della finca “El Picu”, a 1.700 metri d’altezza, ai piedi della Cordillera de Talamanca, la catena di vulcani spenti che divide il versante atlantico della Costa Rica da quello pacifico.
Il prolungamento della stagione delle piogge oltre i mesi invernali si ripete da diversi anni, danneggiando le colture e il turismo sostenibile, che con un gettito di 2,6 miliardi all’anno fornisce ormai al Paese tre volte il ricavato dall’export delle banane e dieci volte quello del caffè.
“E’ colpa dei cambiamenti climatici”, sostiene don Sergio, che ha consacrato ben metà dei suoi 14 ettari alla ricca foresta tropicale, per difendere la biodiversità e il territorio dall’erosione.
“Il problema non è la quantità, ma la stagione in cui arrivano le proecipitazioni: ne abbiamo sempre di meno in maggio, giugno e luglio, quando servono, e sempre di più in dicembre, gennaio e febbraio quando non ci dovrebbero essere”.
Anche per questo tra i 46mila coltivatori di caffè (arabica) della Costa Rica si diffonde un nuovo approccio all’agricoltura, con meno pesticidi e più fertilizzanti naturali. L’obiettivo è triplo: aumentare la resa dei terreni, fornire una materia prima di qualità superiore e migliorare l’immagine delle grandi multinazionali che lo rivendono al pubblico occidentale, dove sono sempre più apprezzati i prodotti sostenibili e fairtrade.
Nespresso, ad esempio, ha lanciato già nel 2003 il suo programma AAA in collaborazione con Rainforest Alliance, che stabilisce una serie di 296 parametri, dalla raccolta a mano solo dei frutti maturi al divieto assoluto di sfruttamento del lavoro dei bambini, dalla coltivazione sostenibile (utilizzo minimale di pesticidi e fertilizzanti chimici) al rispetto della biodiversità.
Gli oltre 3500 coltivatori della Costa Rica che hanno accettato queste condizioni possono vendere il loro prodotto alla multinazionale svizzera a un prezzo maggiorato del 50% rispetto al mercato.
Non solo. Nespresso fornisce assistenza continua da parte di agronomi specializzati nella coltivazione sostenibile, che aiutano i coltivatori a riconvertirsi, assicurando rese migliori e maggiore rispetto per l’ambiente.
“L’iniziativa coinvolge ad oggi l’82% delle nostre forniture, oltre 63mila coltivatori in tutto il mondo, dal Brasile all’India, dalla Colombia all’Etiopia, dal Perù al Sud Sudan”, spiega il responsabile degli approvvigionamenti di Nespresso Karsten Ranitzsch, che conta di arrivare al 100% entro il 2020. Chi ci ha creduto, come don Sergio, è soddisfatto: da quando ha aderito al programma AAA nel 2009, il suo raccolto è raddoppiato dalle oltre 11 tonnellate di caffè di allora alle 23 tonnellate di quest’anno.
“Per noi è un risultato importante, solo così possiamo sperare di trasmettere ai nostri figli un’azienda sana, malgrado l’instabilità dei mercati internazionali”, spiega don Sergio.
Non solo in Costa Rica, ma anche in altri Paesi emergenti sta diventando chiaro che i metodi dell’agricoltura sostenibile sono le armi migliori per affrontare i cambiamenti climatici e la volatilità dei mercati delle materie prime.
Un altro produttore svizzero, il cioccolatiere Barry Callebaut, assicura la completa tracciabilità del proprio cacao certificato, offrendo uno sbocco privilegiato sui mercati internazionali a oltre 20mila piccoli coltivatori in Costa d’Avorio e Sierra Leone, attraverso la sua sussidiaria Biolands International.
La società, specializzata nella coltivazione sostenibile del cacao, ha convertito ai metodi dell’agricoltura naturale migliaia di coltivatori fin dalla sua fondazione, nel ’99 in Tanzania.
Barry Callebaut, colosso del cacao con una produzione annuale di 1,7 milioni di tonnellate, vendute ai produttori di cioccolata di tutto il mondo, ha capito subito il valore della coltivazione sostenibile e fin dall’inizio ha comprato il 100% della produzione certificata da Bioland, per poi acquisire direttamente la società nel 2008, lanciando il programma Bio-United in Sierra Leone e Biopartenaire in Costa d’Avorio, per la certificazione del cacao sulla base di metodi sostenibili.
Programmi analoghi, come quello di Khyati Foods in India, si stanno sviluppando un po’ in tutti i Paesi emergenti. Khyati, specializzata in oli di semi, farina di soia, succhi di frutta e spezie, è ancora più rigorosa delle altre società di accompagnamento verso un’agricoltura più sostenibile e ha portato oltre 15mila piccoli coltivatori indiani a riconvertirsi all’agricoltura biologica.
Per avere la certificazione di Khyati, che s’impegna a comprare tutta la loro produzione, i coltivatori devono eliminare ogni tipo di pesticidi e fertilizzanti chimici.
Fin da subito gli agricoltori hanno un notevole risparmio sui costi, perché smettono di comprare prodotti chimici, ma solo dal secondo anno, applicando i metodi di Khyati, cominciano a vedere i primi risultati positivi sul campo e solo dal quarto anno possono vendere i propri prodotti con la certificazione biologica, a un prezzo maggiorato.
In questo modo ottengono migliori rese e anche un reddito più consistente, con un duplice vantaggio, per l’ambiente e per il portafoglio.
Elena Comelli