giovedì 19 Dicembre 2024
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L’opinione: ”Chi ha paura per l’arrivo di Starbucks in Italia”

Come McDonald’s non ha portato via clienti alle pizzerie italiane, così Starbucks non porterà via clienti ai bar italiani. Ma perché gli imprenditori italiani non hanno mai fatto nulla del genere nel mondo?

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di Giovanna Jacob*

Caro direttore, se ne parlava da mesi ma adesso è ufficiale: Starbucks, la famosa catena americana di caffetterie, sbarcherà in Italia. I detrattori del libero mercato e della globalizzazione economica non riescono a darsi pace.

Convinti che il protezionismo sia la panacea di tutti i mali dell’economia, protestano a gran voce: “Come si può permettere ad una azienda yankee di venire in Italia a rubare clienti alle aziende italiane e a distruggere la tradizione italiana del caffè?”.

Essi non hanno chiaro che impedire ad un imprenditore straniero di fare soldi in Italia significa anche impedire a tanti italiani di portare i soldi a casa.

Riusciranno gli anti-globalizzazione a convincere i disoccupati italiani che, pure di proteggere le aziende italiane dalla concorrenza straniera, vale la pena impedire agli imprenditori stranieri di creare nuovi posti di lavoro in Italia?

Oltretutto, gli anti-globalizzazione non hanno chiaro che, in ogni nazione in cui è stato applicato, il protezionismo ha sempre portato più svantaggi che vantaggi per l’economia nazionale.

Se i consumatori possono comprare solo i prodotti delle aziende nazionali, queste ultime non hanno nessun interesse a migliorare costantemente il rapporto qualità prezzo dei loro prodotti e a inventare nuove tecnologie.

Quindi, le aziende non corrono mai il rischio di andare fuori mercato ma i consumatori sono costretti a pagare sempre di più per avere prodotti sempre più scadenti (che è esattamente quello che avviene in tutti i paesi socialisti). E il paese stesso arretra irresistibilmente.

Inoltre, non c’è bisogno di difendere i tipici locali italiani dai concorrenti stranieri perché si difendono benissimo da soli. La catena di McDonald’s è presente in Italia da più di trenta anni e non ha mandato fuori mercato una sola pizzeria nostrana.

Nessun italiano dotato di un minimo di buon gusto può infatti negare che il “fast food” all’americana è irrimediabilmente inferiore al “fast food” all’italiana, che gli hamburger e le patatine non possono competere con la pizza, i supplì, le focacce liguri, i panzerotti eccetera.

Ma allo stesso tempo, nessun italiano permetterebbe mai ai protezionisti di chiudere tutti i McDonald’s, dal momento che considera un suo diritto mangiare anche hamburger e patatine se e quando ne ha voglia.

Come McDonald’s non ha portato via clienti alle pizzerie italiane, così Starbucks non porterà via clienti ai bar italiani. Ci mancherebbe solo.

I locali di Starbucks sono stati concepiti dal suo fondatore come versioni americane dei tipici bar italiani, dove si va non soltanto a bere il caffè ma anche a chiacchierare e leggere i giornali.

Come possono le copie americane competere con gli originali italiani?

L’insegna con la sirenetta verde fa parte del paesaggio urbano americano. Quando la vedi, ti senti al sicuro: sai che lì dentro potrai placare i morsi della fame con pochi dollari. I panini, gli snack di frutta secca e i prodotti da forno tipicamente americani (muffin e cupcakes) offerti dagli Starbucks sono ottimi e a buon mercato.

Ma il caffè americano di Starbucks… Se ti trovi negli Usa, quella brodaglia amarognola e spaventosamente bollente la bevi volentieri, perché il suo sgradevole sapore ti ricorda che sei in un altro paese, in un altro mondo. Ma servita in patria, sarebbe solo una brodaglia amarognola, senza nessuna poesia.

I fratelli baristi d’Italia non abbiano dunque paura di Starbucks: il loro espresso non teme concorrenti. E chi ama l’Italia non deve temere che le tradizioni straniere, trascinate sul suolo patrio dal vento della globalizzazione, possano distruggere le tradizioni italiane.

Più viaggiano per il mondo e più si contaminano fra loro, più le tradizioni, non solo culinarie, si arricchiscono e si rafforzano.

Indagando un poco si scopre che, ad esempio, i più tipici dolci della tradizione giapponese (la kasutera e il dorayaki), discendono direttamente dal comune Pan di Spagna, che fu introdotto in Giappone nel XVI secolo dai missionari portoghesi di Nagasaki.

Oltre a portare negli Usa la tipica pizza della tradizione partenopea, gli immigrati italiani hanno inventato numerose varianti americane della pizza (a Chicago, città di antica immigrazione italiana, si possono gustare la “Deep-dish pizza”, la “Stuffed pizza” e la “Thin-crust pizza”).

E molto ci sarebbe da dire sulle reciproche influenze fra tradizioni culturali e culinarie dei diversi paesi europei a partire dal Medioevo.

Infine, c’è solo da chiedersi perché un imprenditore americano è riuscito a portare una catena di caffetterie all’americana in Italia, la patria stessa del caffè, mentre nessun imprenditore italiano ha mai pensato di creare e portare negli Usa e nel mondo una grossa catena di caffetterie all’italiana.

C’è da chiedersi perché nessun imprenditore italiano abbia mai pensato di creare e portare nel mondo una grossa catena di locali di “fast food” all’italiana.

A vendere la pizza e gli spaghetti negli Usa ci pensano grosse catene americane che non hanno nulla di italiano: “Gino’s pizza and spaghetti” e “Pizza hut”, della cui gigantesca e gommosa pseudo-pizza è meglio tacere.

E infine, c’è da chiedersi perché nessun imprenditore italiano abbia mai pensato di creare e portare nel mondo una grossa catena di panetterie-pasticcerie all’italiana prima che in Italia cominciassero a spuntare come funghi, uno dopo l’altro, i locali della “California Bakery”.

Fra poco spunteranno come funghi pure i locali della catena “Dunkin Donuts”, che vende le celebri ciambelline colorate.

La verità è che gli imprenditori italiani non solo non riescono a creare grosse catene di fast food low cost ma faticano anche soddisfare la domanda di prodotti italiani (dai vestiti al cibo) che proviene dagli immensi mercati asiatici, specialmente da quello cinese.

Perché all’estero le aziende italiane hanno molto meno successo di quello che potrebbero avere?

La sconsolante risposta è che… la maggioranza degli italiani, che si dividono in post-marxisti e cattolici pauperisti, non vogliono che le aziende italiane abbiano successo ossia facciano profitto. Infatti, per i marxisti “profitto” è sinonimo di “plusvalore” rubato ai poveri mentre per i cattolici pauperisti è sinonimo di “mammona” (essi si ostinano a non voler capire che “mammona” non è il profitto in sé stesso ma l’uso che se ne fa: se è adorato come un idolo, il profitto è mammona; se è usato in funzione del bene, il profitto è come i “talenti” della parabola).

Il fatto che il fisco italiano tolga alle aziende italiane produttive per dare alle rigorosamente improduttive pubbliche amministrazioni non infastidisce minimamente la maggior parte degli italiani.

E il fatto che la esorbitante tassazione impedisca alle aziende italiane di crescere ed aumentare le esportazioni all’estero probabilmente li rallegra, visto che il concetto stesso di profitto li fa inorridire.

∑Allora non si lamentino se in tutto il mondo, fra poco anche nella patria della pizza e del caffè, sono gli americani a vendere la pizza e il caffè.«««»«

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