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Fiat, un caffè il ritrovo dei fondatori: tra loro anche Agnelli

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TORINO – Il 12 luglio del 1899, «La Stampa» pubblicò a pagina 3 una notizia di poche righe nella rubrica «Il movimento economico a Torino». Il titolo diceva: «Una nuova fabbrica torinese di automobili».

Il breve testo riferiva della costituzione, nelle sale del Banco di Sconto e di Sete, della società anonima Fabbrica Italiana Automobili, dotata di un capitale di 800.000 lire (oggi circa 10 milioni di euro) diviso in 4000 azioni da 200 lire l’una. Seguiva l’elenco dei firmatari, in rigoroso ordine di censo.

Prima gli aristocratici dai cognomi più lunghi: conte Roberto Biscaretti di Ruffia, marchese Alfonso Ferrero de Gubernatis di Ventimiglia, conte Emanuele Cacherano di Bricherasio. Poi i professionisti: gli avvocati Lodovico Scarfiotti, Carlo Racca e Gatti-Goria. Infine i possidenti e i tecnici: i cavalieri Aymonino e Foa, l’ing. Marchesi, e, ultimo dell’elenco, il cavalier Agnelli.

Giovanni Agnelli, che di lì a pochi anni avrebbe assunto il totale controllo della società, era stato invitato da Scarfiotti a farne parte proprio il giorno prima, quando si era ritirato dall’impresa l’industriale della cera Michele Lanza, che giudicava troppo complicato costruire automobili.

Ma l’auto (che allora era maschile, diventerà femminile solo nel 1920 grazie a D’Annunzio) era da tempo il sogno di tutti quei soci fondatori. Tra i quali c’erano anche Michele Ceriana-Mayneri e l’agente di cambio Luigi Damevino.

Si ritrovavano tutti la sera alla «Pantalera», il caffè di madame Burello, all’angolo tra Corso Vittorio Emanuele e via Urbano Rattazzi. Era il ritrovo preferito a fine secolo da chi commerciava cavalli e carrozze. Il mondo dei cavalli e delle carrozze era però alla fine. In Francia spopolava l’automobile. E a Torino un piccolo costruttore artigianale, Giovan Battista Ceirano, produceva la «Welleyes». Era una vettura a due posti con motore bicilindrico di 663 cm3, in grado di superare i 35 km orari.

Tutti i fondatori della Fia erano grandi appassionati di tecnologia e meccanica. Giovanni Agnelli, ex ufficiale del Savoia Cavalleria, aveva lasciato l’esercito per dedicarsi a Villar Perosa all’attività di famiglia, l’agricoltura e il commercio di legnami.

Ma era anche entrato nel capitale delle Officine Storero, che producevano biciclette, e aveva procurato un contratto per importare dalla Francia i tricicli «Prunelle». Che erano dotati di un piccolo motore a scoppio De Dion-Bouton.

Al caffè di madame Burello quasi ogni sera discuteva con il genio della meccanica dell’epoca, l’ingegner Aristide Faccioli. Era l’uomo che aveva progettato la «Welleyes». E che chissà di quali altre meraviglie sarebbe stato capace.

Pochi mesi dopo, alla Fia era stata aggiunta una T, perché suonava meglio. E fu Fiat. Ricordava le radici nella città di Torino e traeva stimolo e ispirazione dall’analoga parola latina. Il cui significato è «che sia!».

La produzione della prima vettura Fiat

A fine anno, mentre si completava la costruzione dello stabilimento ai numeri 35, 37 e 39 di Corso Dante, cominciò la produzione della prima vettura. Era la Fiat 3 ½ Hp derivata proprio dalla «Welleyes». Un esemplare è ancora custodito al Museo dell’Automobile.

Quel 12 luglio, in quelle poche righe, «La Stampa» celebrava la nuova industria. «Destinata a un grande sviluppo e a un grande avvenire». Senza avere alcuna idea di quanto i destini del giornale e quelli della famiglia Agnelli si sarebbero presto solidamente intrecciati.

Vittorio Sabadin

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