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venerdì 22 Novembre 2024
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Droghieri in grande: gli imperi del carrello

Agnelli, Ford, Rockefeller? Gente da Belle Epoque. Ormai le grandi fortune nascono dai supermercati. Per averne un’idea basta ricordare la guerra di Caprotti alle Coop. I maggiori operatori della grande distribuzione organizzata nel nostro paese sono Coop Italia (con una quota di mercato del 15 per cento), Conad (con l’11,4 per cento), Selex (8,4), Esselunga (8,2), Auchan (7,3), Carrefour (5,9)

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di Stefano Cingolani*

Agnelli, Ford, Rockefeller? Gente da Belle Epoque. Gates, Murdoch, Soros? Grandi nomi del secolo scorso. La fabbrica mondiale ha lasciato l’occidente, la finanza è lo sterco del diavolo.

Così, il presente e il futuro del capitalismo compie un tuffo nel passato mercantile dove è nato.

Sì, proprio, il commercio, e non solo quello che passa via internet tra e.Bay e Amazon, anche quello più grasso, grosso e triviale del negozio di prossimità.

Il grande magazzino è una miniera a cielo aperto, lo si sa; nella classifica dei re Mida c’è al terzo posto Amancio Ortega di Zara, per non parlare di Ingvar Kamprad, il patron di Ikea che ha sempre nascosto le sue fortune.

Ma la moderna cornucopia è il piccolo aggeggio metallico con quattro rotelline che ogni giorno viene riempito nel supermercato all’angolo.

La famiglia più ricca al mondo, quella di Sam Walton, possiede la maggiore catena di supermarket: Walmart.

Ma attenzione, anche il re del lusso, Bernard Arnault, il patron di Lvmh (acronimo di Louis Vuitton Moët Hennessy), s’è fatto droghiere diventando il principale azionista di Carrefour.

Così, quando mettiamo una qualsiasi mercanzia nella borsa della spesa portiamo un mattone alla cattedrale mondiale del carrello.

Elogio della spesa fatta alle 3 del mattino (alla faccia della Luna) Questa storia comincia con un’esperienza personale che spalanca la finestra su un mondo poco conosciuto, popolato di sigle e acronimi dietro i quali si celano personaggi inaspettati, storie di famiglia, guerre di mercato.

Il pizzicagnolo sotto casa aveva aperto il suo negozietto quando le banche, irrorate dal piano Marshall facevano credito e i comuni avevano licenze da affidare a intraprendenti giovanotti senza intermediari né tangenti, tutt’al più un cesto a Natale, qualche bottiglia d’olio, un po’ di vino, pizza e mortadella (il prosciutto era ancora un bene di lusso).

Varcati i cinquant’anni di onorata carriera, arriva a festeggiarlo il sindaco Walter Veltroni.

Finiti i brindisi, il pizzicarolo (come lo chiamano a Roma dove si usa anche norcino perché i salumi venivano da Norcia) annuncia che sarà il figlio a prendere le redini.

La foto di quel giorno solenne, con il primo cittadino in fascia tricolore e il babbo con un calice di spumante in mano, è sempre lì, appesa dietro il banco, però la bottega ha cambiato etichetta, prima tutti la chiamavano con il cognome del proprietario, oggi con una sigla, un acronimo pieno di consonanti: Despar. Che cos’è?

Si contano a dozzine a Roma i negozietti trasformati in parvenze di supermarket, piccoli simulacri dove è minuscolo anche il carrello, che inalberano la stessa sigla.

Despar è solo il marchio adottato nel Lazio e in alcune altre località italiane. Il logo autentico in quasi tutti i paesi del mondo è Spar e viene dai Paesi Bassi.

Se andiamo alle radici scopriamo che l’acronimo si presta a diversi significati.

Scritto De Spar in olandese significa l’abete e proprio dall’albero di Natale deriva il simbolo che si trova in ogni negozio ed è diventato la bandiera della prima cooperativa di negozi al dettaglio fondata in Olanda nel 1932.

Oggi è la più grande al mondo con un fatturato attorno ai 30 miliardi di euro l’anno. E Despar sta per Door Eendrachtig Samenwerken Profiteren Allen Regelmatig (dalla cooperazione armoniosa tutti traggono vantaggio in egual modo).

Arzigogolato, barocco, eppure il sistema ha funzionato e ha trovato seguaci in ogni paese.

Di olandese Despar ha solo il logo introdotto in Italia nel 1959 da Marino Puggina che fu presidente del Calcio Padova e vicepresidente della Lega Calcio.

Tra i suoi trofei, non solo la squadra salita in serie A dopo un trentennio di assenza, ma la scoperta di un asso come Alessandro Del Piero.

Dopo nemmeno un anno, la società comincia a dividersi come un’ameba: praticamente in ogni regione opera con marchi diversi, consorzi, concessionari: Sadas, Asipag, Fiorino, Maiora, Ergon, Tuo.

Spesso si tratta di piccoli esercenti che decidono di associarsi per risparmiare sulle spese fisse, a cominciare dal magazzino e dall’approvvigionamento.

E’ questo il nuovo mondo del commercio al dettaglio, finito anch’esso nell’ampia rete della Gdo (ancora sigle), la Grande distribuzione organizzata che in questi ultimi anni ha assunto una dimensione vastissima, talvolta bizzarra, che crea una peculiare gerarchia sociale e urbanistica.

In fondo ci sono i “bassi” degli immigrati: cinesi, indiani, arabi. Li chiamiamo con il termine napoletano, perché fanno molto spesso da casa e bottega.

Anche se non dovrebbe essere permesso, basta un qualche divisorio per distinguere l’abitazione dal luogo della mercanzia.

Poco più su nella scala, ecco i vecchi negozietti finiti nei tentacoli delle piovre: Despar o Cai, Conad o A&O, Lillo, Eurspin, Cash & Carry, Dpiù, Végé che opera a sua volta come Sidis, Etè, Migross, DiMeglio e chi più ne ha più scriva. Tutto questo pullulare sta rimpiazzando il cosiddetto commercio di prossimità nei centri delle città.

La periferia, invece, è il regno del supermercato vero e proprio: Carrefour e Auchan, Esselunga e Coop, si danno battaglia a suon di vetrine, scaffali, metri quadrati.

Fuori, vicino alle autostrade, ai raccordi, alle tangenziali, i centri commerciali segnano la mappa del mercato postmoderno.

Marchi stagionati e nuovi, italiani e stranieri; etichette talvolta incollate su botteghe improvvisate, se non addirittura (è l’eterno sospetto) su fortune incerte, sporche, certo vogliose si essere lavate al più presto.

In mezzo, s’aggira il cliente frastornato, con gli occhi incollati all’etichetta, alla ricerca del prezzo più basso. Il discount durante la crisi è diventato l’ultimo grido, guai a chi non annuncia di fare sconti, anche solo di pochi centesimi.

L’universo del carrello è una foresta intricata nella quale è difficile penetrare, un paesaggio poco raccontato perché non è considerato sexy dal punto di vista dell’informazione, anche se consuma una buona parte della nostra vita quotidiana.

I maggiori operatori della Gdo alimentare per quota di mercato sono Coop Italia (15 per cento), Conad (11,4), Selex (8,4), Esselunga (8,2), Auchan (7,3), Carrefour (5,9), Eurospin (4,7), Despar (4,7), Sigma (3,6) e Gecos (3,2).

Il ricorso al franchising e la frenetica compravendita sono modi non solo per scaricare costi e responsabilità, ma anche per aggirare gli ostacoli burocratici legati alle licenze, ai permessi di costruzione, alla destinazione d’uso e alla corruzione che il regime delle concessioni porta con sé.

Né questi escamotage né i colpi della crisi hanno cambiato le gerarchie, semmai “hanno accelerato processi che erano già in corso”, spiega Mariano Bella, capo ufficio studi della Confcommercio.

In occasione dei 70 anni dell’organizzazione nata nel 1945, ha messo a confronto un po’ di cifre.

Nell’immediato Dopoguerra gli esercizi commerciali totali al dettaglio non raggiungevano le 800 mila unità di cui 250 mila ambulanti.

Sono rimasti poi sopra il milione fino agli anni Settanta e oggi sono 943 mila, di cui 188 mila ambulanti. Se prendiamo i punti di vendita fissi, vediamo che i supermercati sono il 39 per cento, i tradizionali appena il 5,7 per cento, il cosiddetto libero servizio (negozi tra i 100 e i 400 metri quadrati) il 12 per cento, i superstore il 13 e gli ipermercati con una superficie superiore ai 4.500 metri quadrati il 14,9 per cento.

Fino al 2007, le grandi dimensioni macinano il libero servizio e i negozi tradizionali.

Poi le cose cambiano, secondo l’analisi di Nicola De Carne, analista della Nielsen, la compagnia americana leader nello studio del marketing.

Perdono terreno gli ipermercati a favore dei supermarket, i negozi veri e propri cedono spazio ai discount.

“Ma attenzione a leggere bene i dati”, insiste Bella: anche questi sono trend emersi negli anni della crescita che la recessione ha enfatizzato.

Gli iperstore, ad esempio, sono stati sopravalutati e non si addicono a una società urbana come quella italiana, soprattutto là dove le infrastrutture languono (autostrade, ferrovie, metropolitane).

Il flop ha colpito le catene francesi che avevano puntato tutto sul gigantismo. Negli ultimi anni stanno perdendo colpi e denaro. A favore di chi? Delle italianissime Coop e Esselunga; sì, proprio le due irriducibili nemiche che si combattono a suon di libri, articoli di giornali, propaganda e tribunali.

Mediobanca in un rapporto dell’Annuario R&S 2014 calcola che Carrefour è calata del 6,5 per cento, Auchan-Sma del 4,3, Gecos ha ceduto il 3,3 per cento. Anche esaminando il quadriennio 2009-2013 solo Esselunga (+16,4 per cento) e Coop (+5,2 per cento, sempre su base omogenea) hanno aumentato il fatturato. Importante il ridimensionamento di Carrefour, il cui giro d’affari è sceso del 21 per cento. Meno marcato è stato il calo di Auchan-Sma (7,8), marginale quello di Gecos (1,1).

Al vertice, dunque, sono rimasti i duellanti conradiani che si combatteranno fino alla fine: Caprotti e le coop rosse che il patron di Esselunga ha battezzato “falce e carrello” in un suo libro di successo.

“La perdita dei due gruppi francesi ha fatto seguito a dinamiche differenti delle strutture commerciali presenti in Italia”, spiega Mediobanca.

Carrefour ha ridotto nel quadriennio i punti vendita complessivi, sia diretti che in franchising o in affiliazione, passando dai 1.545 del 2009 ai 1.125 di fine 2013, per un saldo negativo di 420 unità.

Nel caso di Auchan-Sma si è avuto invece un lieve progresso dei punti vendita, da 1.775 a 1.806. L’aumento maggiore è stato realizzato dalle Coop (+5,4 per cento su base omogenea), seguite da Esselunga (+2,9 per cento), anche se la rete più estesa resta quella di Auchan-Sma con 1.806 punti vendita, dei quali però oltre l’82 per cento in franchising o affiliazione, formula cui il gruppo francese fa ricorso più di tutti, seguito da Carrefour con il 59 per cento circa.

Molto limitata l’incidenza per Gecos-Pam, mentre Esselunga e Coop gestiscono solo punti in proprietà.

Di nuovo, le due avversarie di sempre, i due universi politici e ideologici oltre che mercantili, finiscono per assomigliarsi nel modello di business.

Il carrello ha trasportato non solo beni di consumo, ma grandi fortune.

La famiglia più ricca del mondo ha fatto i quattrini proprio con la grande distribuzione: sono gli eredi di Sam Walton che con Walmart nel Dopoguerra ha rivoluzionato il modo di vendere in un mercato di massa, anzi decisamente popolare.

Bernard Arnault che non si lascia sfuggire nessun buon affare s’è buttato su Carrefour. Che faccia gola si può capire. Ogni sera esce denaro contante, le casse sembrano slot-machine, dispensatrici di monetine.

E oggi più mai vince chi ha soldi in tasca, magari sotto il materasso o, appunto, nella cassa del supermercato. La grande distribuzione del resto fa concorrenza alla stessa banca, emette carte di credito, dispensa contanti; all’estero succede da anni, ma anche l’Italia si sta adeguando.

Una pubblicità americana negli anni in cui si diffondevano i supermercati. In Italia il primo, aperto a Milano, si fa risalire al 1957 (era il punto vendita Standa in Via Torino angolo via Palla, a Milano; n.d.r.)

Gli imperi dei supermercati in Europa vengono fondati da bottegai arricchiti o da cooperative di consumo spesso legate ai sindacati e alle organizzazioni operaie.

Fa eccezione Leclerc perché ha messo insieme l’épicerie, la drogheria, e la coop.

Edouard Leclerc nasce in una famiglia borghese e cattolica anche se il padre Eugène era membro del Partito socialista. Studia in seminario e vuol fare il prete finché la guerra non interrompe drammaticamente la sua vocazione.

Accusato di aver denunciato ai nazisti alcuni abitanti del suo paese (Landernau nel Finistère), viene liberato con un non luogo a procedere, ma la storia riemerge come un fiume carsico, da parte dei suoi concorrenti invidiosi: pura diffamazione sentenziano ben cinque volte i tribunali.

Perché Eduard rinuncia alla tonaca e si fa commerciante anche se di tipo singolare. Nel 1949 comincia una serie di conferenze presso l’Azione cattolica per esporre le sue idee: mettere insieme pizzicagnoli indipendenti che sfuggano alle grandi catene, combattano l’inflazione e vendano a prezzi accessibili anche alle famiglie più povere.

Per anni predica, ma nessuno lo segue, i suoi sono piccoli semi, anzi piccolissimi come quelli della senape evangelica, finché nel 1955 non cominciano a germogliare.

Nasce così quel che sarà chiamato il movimento Leclerc che continua a battersi contro i monopoli, anche se diventa esso stesso un potere enorme con un fatturato che sfiora i 50 miliardi di euro e magazzini in mezza Europa (33 in Italia).

Il suo esempio ispira Gérard Mulliez figlio di un dirigente di un’azienda tessile di Dunkerque che, colpito dai seminari di Bernardo Trujillo, chiamato negli Stati Uniti il papa della grande distribuzione, decide di fondare Auchan.

Prima di partire si consiglia con Leclerc il quale gli snocciola la sua filosofia: mai più caro del meno caro, meglio vendere cento piccoli prodotti guadagnando un centesimo su ciascuno che dieci prodotti con 10 centesimi di margine.

In Italia entra nel 1989 e si adegua subito perché comincia a operare con un ampio ventaglio di sigle (ça va sans dire): Auchan, Norauto, Simply Market, Punto Simply, Iper Simply, La Bottega Sma, Auchan Mobile, Gallerie Auchan, Iovorrei, Pracchi, Europa Europa, Cartaccord, Lillapois.

Anche Marcel Fournier, famiglia di grossisti di Annecy, e i fratelli Jacques e Denis Defforey, avevano seguito i seminari di Trujillo, ma si mettono subito su un sentiero diverso.

Altro che piccoli bottegai di provincia, altro che catene di speziali: grandi superfici accanto alle grandi città, all’incrocio degli affari, il carrefour appunto.

Il debutto nel 1963 è con 2.500 metri quadrati e 400 posti macchina vicino a Parigi. Tre anni dopo sono già a diecimila metri quadrati vicino a Lione.

Comincia una corsa inarrestabile: Carrefour resta a struttura familiare, ma diventa una multinazionale finché la corsa al gigantismo, anche imprenditoriale e finanziario non s’interrompe alla svolta del secolo.

Arrivano anni difficili, con un crollo dei valori in Borsa e voci ricorrenti di scalate da parte di Walmart o del gruppo britannico Tesco. Finché nel 2007 avviene il salvataggio da parte di Arnault insieme al fondo americano Colony Capital.

Un buon affare per il signore del lusso? Non esattamente. La crisi ha colpito il ceto medio, tipico cliente di Carrefour, in Borsa ha perso oltre metà del proprio valore, mentre al contrario i titoli di Lvmh hanno continuato la loro ascesa.

Eppure l’uomo più ricco di Francia non ha mollato, anzi due anni fa Arnault si è separato da Colony ed è diventato il principale singolo azionista. E siccome sa fare bene i propri conti, non l’ha fatto per affezione al marchio, ma alla filosofia di fondo: “Compri due, prendi tre”, come recita il motto pubblicitario.

I francesi restano i numeri uno in Europa, anche se la guerra del carrello è più che mai accesa. L’ultima dal fronte è la fusione tra l’olandese Ahold e il belga Delhaize: se riesce il nuovo gruppo diventerà il terzo incomodo mondiale tra Walmart e Carrefour.

Intanto, si fanno avanti i tedeschi con una politica aggressiva di prezzi che arriva fino al discount. La formula nuova e vincente viene introdotta da Otto Beisheim che nel 1964 fonda Metro, una catena di vendita all’ingrosso diventata la quarta catena di grandi magazzini al mondo (dopo Wal-Mart, Carrefour e Tesco).

Azionista di riferimento è Franz Haniel, erede di una famiglia di mercanti le cui origini risalgono al 1756 e oggi si compone di 600 membri. Nel corso di due secoli hanno comprato e venduto di tutto. Oltre al commercio al dettaglio investe nella farmaceutica, negli acciai speciali (Elg) e nelle materie prime.

Sono le grandi fortune germaniche, delle quali si sa poco, perché si proteggono con il muro del silenzio e del segreto. Come il proprietario di Lidl.

Dietro il gruppo diventato popolare anche in Italia, c’è un uomo che coltiva il mistero: la sua fortuna viene stimata in 15 miliardi di euro, ma di lui si sa pochissimo. Si chiama Dieter Schwarz, vive con la famiglia a Heilbronn lungo il fiume Neckar e finora circolano solo due foto, una delle quali in bianco e nero.

Il padre Josef fondò i primi magazzini negli anni Trenta battezzandoli con un nome tipico di quell’era: Kaufland, la terra delle compere. Ma il successo arriva con la ricostruzione postbellica lanciando la formula del discount insieme a Ludwig Lidl, un ex insegnante.

Oggi esistono diecimila supermercati in giro per il mondo. Il primo al di qua delle Alpi è stato aperto in Veneto con lo slogan “Italia Anch’io”.

La regola aurea è niente sindacati e il meccanismo per aggirare lo Stauto dei lavoratori è assumere non più di dieci dipendenti per unità distributiva.

Naturalmente sono fioccate le cause, ma nessuna ha bloccato una espansione che la crisi e l’onda del discount ha consolidato.

Fuori i sindacati? Un invito a nozze per Bernardo Caprotti. Anche lui è rimasto folgorato dal carrello durante un viaggio in America. La febbre del supermercato gli ribolle nelle vene, però muove i primi passi nell’azienda di famiglia, una storica tessitura a Macherio.

Caprotti racconta che nel 1957 il fratello Guido insieme all’uomo d’affari Marco Brunelli (che diventerà un concorrente spietato con la catena GS) nella hall dell’hotel Palace di Sankt Moritz sente che Micio Borletti, presidente della Rinascente parla con i suoi soci della proposta di entrare in società con Nelson Rockefeller per aprire dei supermarket in Italia.

“Noi siamo la Rinascente, quella di Bocconi, e vogliamo la maggioranza”, dicevano tra loro. Ma i Rockefeller erano quelli della Standard Oil e non accettavano di non comandare.

Brunelli invece si piega e mette insieme i Caprotti, i Crespi (quelli del Corriere della Sera, anch’essi industriali tessili) e la principessa Letitia Boncompagni Pecci Blunt, grande amica dei Rockefeller, che fa da garante con Nelson.

Dunque la crème de la crème: chi l’ha detto che vendere pane, pasta, zucchine e cetriolini è un mestiere da plebei?

Caprotti non lo ha mai pensato, anzi resta uno dei suoi punti fermi insieme ai princìpi della impresa capitalistica. Si definisce antifascista (il padre Giuseppe aveva finanziato Mussolini come tutti gli industriali milanesi, ma si era pentito anche lui con la guerra d’Etiopia), liberale e anticomunista, ed è convinto che il miracolo economico italiano si sia suicidato con lo strapotere dei sindacati ai quali ha sempre cercato di opporsi.

Ma il vero potere che gli è sempre stato nemico e contro il quale ha scritto un libro di inatteso successo (“Falce e carrello”, edito da Marsilio) è quello delle cooperative inquadrate nella Lega che ha il quartier generale a Bologna in via Stalingrado.

Caprotti accusa le Coop di concorrenza sleale perché si muovono come una falange sistemica e non solo nelle regioni rosse dove hanno un potere dominante: ovunque applicano lo stesso metodo fatto di legami politici e di privilegi amministrativi.

Il 23 dicembre 2013 all’età di 88 anni Bernardo ha rassegnato le dimissioni da tutte le cariche aziendali. Il suo testamento è un mistero depositato nelle mani del notaio Carlo Marchetti.

A chi andrà Esselunga? Non ai figli, con i quali ha ingaggiato una battaglia giudiziaria. Si era parlato di una vendita e molti avevano temuto un passaggio in mano straniera.

Allora tutti a dire che è un patrimonio del paese, ma i veti politici non sono finiti. “Siamo stati esclusi da Expo – accusa Caprotti – Invitano solo Coop e Eataly”.

Esselunga ha impiegato ben dodici anni per aprire a Roma dove nel frattempo si sono insediate nuove fortune.

Come Despar. Fino a un anno fa era in mano al cavalier Antonino Faranda, 47 anni, titolare insieme al fratello Massimiliano, di una galassia di supermercati, discount, società per l’imbottigliamento di acque minerali, immobili (la società Soime Srl, è proprietaria del villino la cui ristrutturazione è stata accusata di aver danneggiato l’acquedotto Vergine).

Siciliani di nascita, i due fratelli sono arrivati a Roma negli anni Novanta per sfuggire alla mafia. Si racconta che erano stati testimoni in alcuni processi contro il racket a Capo d’Orlando.

E per la loro famiglia da quelle parti non c’era più possibilità di fare nulla, tanto che vivevano sotto scorta. Così, hanno ricominciato nella capitale dove in poco tempo sono usciti dall’ombra con il gruppo chiamato Tuo e hanno vinto anche contratti di fornitura alimentare per la pubblica amministrazione.

I fratelli Faranda hanno coltivato legami trasversali, da Veltroni a Giancarlo Elia Valori o Italo Bocchino. E non hanno nessun problema nel fare affari con le cooperative rosse alle quali hanno ceduto i 52 supermercati a marchio Despar e InGrande, prendendo in cambio gli hard discount Dico (operazione che ha suscitato le ire dei Cinque stelle).

Si passano negozi di mano in mano come fossero figurine, in un gioco sempre più frenetico, il cui giro d’affari è ibrido perché oltre al valore di scambio conta il valore immobiliare.

Un tourbillon di alto contenuto speculativo in un settore economico che sta vivendo una trasformazione permanente.

E il pizzicarolo sotto casa? Dovrà cambiare di nuovo nome. O magari passerà alla Conad, la catena di bottegai che fa sempre parte dello stesso milieu politico, ma in affari è nemica giurata del marchio Coop.

Ci siamo persi tra sigle e personaggi, scoprendo che il carrello è come un bancomat e anche lui può diventare una storia sexy.

Così abbiamo dimenticato la domanda fondamentale: che cosa ci guadagna il cliente? Rivolgiamoci all’Istat e vediamo come sono andati i prezzi dei generi alimentari che riempiono i nostri carrelli.

Siamo in deflazione, cioè nell’insieme i prezzi diminuiscono, quindi dovremmo attenderci la stessa tendenza anche per cibo e affini. Invece no, tutto il contrario.

L’ultimo dato che abbiamo a disposizione è maggio, ebbene rispetto allo stesso mese di un anno fa, gli alimentari sono cresciuti di un punto percentuale.

I trasporti sono scesi dell’1,2 (anche grazie al calo del prezzo del petrolio), le comunicazioni di ben due punti, acqua, luce e combustibili meno 1,4, le altre voci sono attorno allo zero, esclusi alcolici e tabacco gravati dalle tasse.

Invece, nel cibo s’annida l’inflazione.

E tutto questo pullulare di botteghe, minimarket, supermarket e ipermarket?

Come mai la concorrenza, che funziona perfettamente per telefonini e aggeggi elettronici, non influenza i beni essenziali?

Magari la nostra giungla dei carrelli finisce per essere pletorica e inefficiente; del resto, la concentrazione è inferiore rispetto ad altri paesi europei: i primi tre operatori italiani rappresentano il 34 per cento del mercato, contro il 61 per cento del Regno Unito e della Germania, il 54 per cento della Spagna e il 53 per cento della Francia.

Ma vuoi vedere che il carrello si trasforma in cartello? Un cattivo pensiero, di quelli che avvicinano alla verità.

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