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venerdì 22 Novembre 2024
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Quantità di miscela: i giudici stimano la dose opportuna

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La goccia (di caffè) che ha fatto traboccare il vaso: è stato proprio il caffè a far finire un bar sotto la lente del Fisco, che ha contestato al titolare un maggiore reddito di impresa sulla base alla quantità di caffè destinata alla vendita o somministrata in tazza, oltre ai prodotti di pasticceria, tenendo conto delle quantità rimaste invendute.

Per il calcolo del maggior reddito, l’ufficio aveva stimato che la quantità di miscela presa a base per la preparazione di una tazzina di caffè fosse 7,5 grammi; totale ritenuto congruo dalla Commissione tributaria regionale, che aveva così accolto le ragioni dell’Agenzia.

Differente era il parere della contribuente, che lamentava, tra le altre cose, la scarsa attendibilità del metodo e il “fatto notorio” della quantità di miscela occorrente per la produzione di una tazzina, sostenendo in merito che essa “non necessita di essere certificata neppure dalle case fornitrici di caffè”.

Insomma, per la contribuente la quantità di caffè necessaria per servire una tazzina non può essere ricondotta ad un fatto notorio, e quindi anche la legittimità dell’avviso di accertamento mancava di una motivazione sufficiente.

I motivi sono però stati considerati inammissibili dalla Corte di Cassazione, con sentenza del 17 giugno 2015, n. 12518. La diatriba sulla quantità di caffè usata per ogni tazzina non si riduce infatti al solo fatto notorio, in quanto non era stata omessa l’analisi delle fatture.

In mancanza delle distinte analitiche –che erano di grave ostacolo per l’attività di accertamento– e incapace a provare il contrario di quanto affermato dall’Ufficio, la contribuente è stata condannata.

Fonte: Fiscopiù – Giuffrè per i Commercialisti –

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