Di Nicola Lombardozzi* MOSCA – Dicono che ogni tanto torni in gran segreto sulla piazza Oktjabrskaja, a sedersi come un anonimo cliente a uno dei tavolini che guardano la statua di Lenin. Un caffè americano, una fetta di torta e qualche rublo di mancia alla cameriera che non sa di servire il titolare di un piccolo impero in grande espansione. Nessuno del resto se ne accorgerebbe mai. Aleksandr Kolobov è uno dei miliardari più discreti e modesti che la Russia abbia mai avuto. Bassino, faccia tonda, aria dimessa; idiosincrasia congenita per macchine fotografiche e telecamere,; disgusto dichiarato per ogni forma di vita mondana.
Kolobov the self made man russo
A 34 anni gestisce quasi duemila caffetterie sparse tra lo sterminato territorio russo e i paesi dell’ex Unione Sovietica. Ha dato filo da torcere agli americani di Starbucks arrivati da queste parti sicuri di fare sfracelli. Inoltre, continua a elaborare programmi sempre più ambiziosi: raddoppiare nel 2013 il numero di locali e prepararsi alla grande invasione dei mercati occidentali cominciando da Polonia, Repubbliche Baltiche, Bulgaria, per sbarcare prima o poi sempre più a Ovest.
Segnatevi dunque questo marchio: “Shokoladnitsa”
Che vuol dire “Cioccolattaia”. Già segna le strade e le abitudini di tutta la Russia da Mosca a Vladivostock da quando ha cominciato ad agire in grande nel 2000.
L’intuizione di Kolobov, allora poco più che un ragazzino, è stata semplice e immediatamente redditizia: è vero che la Russia è la terra del tè nero dove il samovar è un simbolo nazionale dalle mille valenze letterarie, ma il caffè ha comunque un suo fascino tutto da sfruttare legato all’inconfessabile voglia di emulare l’Occidente e anche alla sua presunta maggiore adattabilità ai ritmi rapidi e concitati della vita moderna.
Come tutte le storie dei ricchi della Russia di oggi, tutto comincia anche in questo caso con i giorni convulsi della fine dell’Urss quando gran parte delle proprietà dello Stato vengono vendute a prezzi incredibilmente bassi a chi ha messo da parte chissà come dei risparmi in una fase storica in cui non era ufficialmente consentito.
E’ il momento in cui nascono i cosiddetti oligarchi dai patrimoni senza limite. E anche degli imprenditori medi. Galina e Grigorij, genitori di Aleksandr, cuochi e ristoratori di mestiere, riescono a metter su un ristorante di cucina messicana e ad associarlo alla catena internazionale “Pancho Villa”.
Assetati di novità, i russi che avevano scoperto Mc Donald’s solo negli ultimi anni di Gorbaciov, accorrono in massa. I Kolobov non diventano straricchi ma cominciano a passarsela molto bene.
E uno dei primi segni del loro benessere è mandare Aleksandr a studiare all’estero, alla London School of Economics. Il ragazzo impara tante cose ma soprattutto assiste a un fenomeno che in quegli anni fa parlare molto i giornali inglesi: la rivoluzione del caffè.
Il boom delle caffetterie proprio nella patria del tè delle cinque. Quando torna a Mosca, esperto di economia ma digiuno di arte della cucina, è difficile trovargli un posto nell’azienda di famiglia che intanto si è allargata prendendosi il franchising per la Russia dei ristoranti “Hard rock Cafe”.
Il colpo di fortuna è la messa in vendita da parte del comune di Mosca di un ultimo residuo del socialismo reale, appunto la “Cioccolattaia” di piazza Oktjabrskaja.
Locale di Stato assolutamente atipico per l’Unione Sovietica. Specializzato in cioccolata calda, torte fatte in casa e blinì (le crepes russe) al cacao e noci.
Chi era giovane negli anni 70 ricorda ancora le lunghe code per arrivare al banco o sedersi a un tavolo. Ne valeva la pena, dicono, perché a differenza di tutti i locali dell’epoca, abbagliati dai neon e arredati con il gusto rozzo e pragmatico delle mense aziendali, era un posto accogliente dove incontrare gli amici, fare due chiacchiere, passarsi in segreto un disco proibito dei Beatles.
Dopo il primo bacio, dicevano i moscoviti dell’epoca, una ragazza puoi portarla ovunque, ma la prima volta deve essere assolutamente da “Shokoladnitsa”.
Su tutte queste sensazioni Kolobov fonda la sua creatura.
Acquista il locale ormai in disuso e ne fa un prototipo per il suo progetto.
Quadri alle pareti, tavolini rotondi in ferro battuto e finto marmo, citazioni letterarie ovunque dai menù alle toilette, prezzi abbordabili ma non troppo bassi, destinati insomma a quella classe media che sta per nascere dalle macerie dell’Urss.
Personale arruolato con il metodo dei Fast food americani: pagati benino (in media cento euro a settimana) e liberi di fare part time o di lavorare, assentarsi e rientrare al lavoro. Perfetto per studenti o giovani in cerca di un’altra più remunerativa occupazione.
Il successo è immediato e i locali si aprono uno dietro l’altro.
Poco importa se il finanziere Timur Khajrutdinov ha la stessa idea e lancia la catena rivale “Coffee House”.
Il mercato è immenso, c’è posto per tutti.
Ogni nuovo locale appena aperto rientra delle spese in un massimo di sei mesi.
E quando nel 2006 arriva in Russia la temutissima corazzata Starbucks, Shokolanidtsa è pronta. “Loro – racconta Kolobov – vivono solo del caffè che rappresenta l’80 percento del loro fatturato. Noi siamo un’altra cosa”.
Per marcare la differenza ha realizzato dei laboratori di cucina e pasticceria che riforniscono i vari locali. Ce ne sono a Mosca, San Pietroburgo, Kiev.
E riforniscono i locali aperti fino in Azerbaijan, Kazakhstan e Armenia.
Preparano dolci, primi piatti, antipasti, che si presentano molto meglio dei piatti scongelati e cellophanati dei concorrenti americani.
E che ribadiscono la filosofia di fondo: “Shokoladnitsa” è un luogo di aggregazione, un estensione della case mediamente piccole e sovraffollate di Russia, dove si può studiare, festeggiare, fare incontri.
E discutere di politica se è vero che le caffetterie di Mosca sono diventate i quartier generali della strisciante opposizione di piazza degli ultimi mesi.
Ma su questo Kolobov preferisce glissare.
Di qualunque cosa si parli ai tavoli, il modulo va benissimo. E la cartina d’Europa si prepara a ricevere altre bandierine marchiate “Shokoladnitsa”.
*Fonte: La repubblica