Matteo Borea, coffee master e proprietario di terza generazione di La Genovese, la torrefazione di Albenga (Savona), condivide il suo punto di vista sulla puntata di Report andata in onda domenica scorsa in cui viene analizzato lo stato della tazzina nel Bel Paese. Leggiamo di seguito le sue considerazioni.
Dalla repubblica della ciofeca a quella degli ignoranti: chi vince la sfida?
di Matteo Borea
“Parlare di caffè in Italia dovrebbe essere un motivo di orgoglio, non di polemica. Eppure, ogni volta che si prova a sollevare il velo sulla qualità media della nostra tazzina, si scatenano guerre di opinione, con chi si indigna e chi si difende a spada tratta. Ma siamo sicuri che questo sia il punto? O forse stiamo perdendo di vista il problema reale?
Prima di entrare nel merito, è necessario fare chiarezza su chi ha prodotto il servizio e qual è il suo obiettivo. Report è una trasmissione giornalistica, e i suoi autori ignoranti in materia. Lo dico nel senso stretto del termine quindi non me ne vorranno Ranucci, Iovene e colleghi che sono comunicatori, non torrefattori, assaggiatori o baristi. Il loro mestiere non è quello di addentrarsi nelle sfumature del caffè o nelle complessità della filiera, ma di raccontare storie di interesse generale e, inevitabilmente, ottenere audience. E si sa: creare polemica è un metodo infallibile per attirare attenzione.
Il servizio, però, ha messo in luce problemi reali: la scarsa cultura del caffè in Italia, la mancanza di professionalizzazione dei baristi, le condizioni igieniche discutibili in molti bar e l’abitudine di tostare in modo eccessivo per coprire i difetti del prodotto. È evidente che ci sia tanto da migliorare, e sono il primo a sostenere che un cambiamento sia necessario. Ma il vero punto, secondo me, è un altro.
Il vecchio detto “bene o male, l’importante è che se ne parli” non è mai stato così vero. Per chi opera nel mondo del caffè, servizi come questo sono, in realtà, un regalo prezioso. E il fatto che mamma Rai abbia scelto il periodo di Natale per mandarlo in onda rende il regalo ancora più significativo. Questa è un’enorme opportunità non solo per riflettere e migliorare, ma per mostrare il valore autentico di tutta la filiera.
C’è una verità che nessuno vuole ammettere. Se vogliamo davvero alzare l’asticella, dobbiamo iniziare con un esercizio di onestà: guardarci allo specchio e riconoscere chi siamo. La verità, per quanto scomoda, è che il nostro settore è diviso, frammentato e troppo spesso guidato dal profitto individuale anziché dal progresso collettivo. Sembra di essere in un asilo senza maestre, dove i bambini si fanno i dispetti e prospera il disordine.
Parlo con spirito auto-critico, perché le dinamiche interne lo dimostrano chiaramente. I battibecchi tra i vari “super consulenti formatori mega guru pluripremiati” — supercazzola voluta — alimentano un clima sterile, in cui l’ego supera di gran lunga la voglia di costruire qualcosa di duraturo.
Poi c’è la guerra dei centesimi tra torrefattori, pronti a scendere a qualsiasi compromesso pur di appendere un’insegna in più, anche a scapito del valore del prodotto.
E infine, le associazioni di categoria, che rimangono spesso spettatrici passive, pronte a compilare report di fine anno che raccontano quanti locali hanno chiuso o, di tanto in tanto, a far finta di fare la voce grossa con le istituzioni per poi non riuscire ad ottenere nemmeno un contratto nazionale che si rispetti.
In questo caos, paradossalmente, Report ci sta facendo un gran favore. Con i suoi toni sensazionalistici e le sue inevitabili semplificazioni, ha comunque il merito di accendere i riflettori su problemi reali. È successo nel 2014, quando il primo servizio innescò un’ondata di riflessioni e miglioramenti, ed è successo di nuovo con il servizio di quest’anno. Anzi, dovrebbero farne uno al mese: se oggi vediamo qualche progresso, è anche grazie a questi stimoli esterni.
Non serve cercare scuse o puntare il dito. Se il settore è in crisi, la responsabilità non è di Report che ne parla a sproposito, dei consumatori o della concorrenza internazionale. È nostra. Divisi come siamo, senza una visione comune, non potremo mai costruire una cultura del caffè che possa competere con quelle di altre realtà nel mondo. E questo è il vero problema, molto più grave di una tostatura troppo scura o di un espresso “arruscato” [cit.] adatto solo a palati geneticamente modificati [ri-cit.]
L’evoluzione necessaria: dal prodotto all’esperienza
Il caffè, nel suo significato più autentico, non è solo una bevanda. È un momento di connessione, un rito che attraversa generazioni, una forma di cultura che racconta storie di persone, luoghi e tradizioni. Eppure, il dibattito nato dal servizio di Report sembra essersi limitato a dettagli tecnici: tostature, attrezzature, pratiche igieniche. Tutto importante, certo, ma decisamente non sufficiente.
Se c’è una città che incarna meglio di tutte questa dimensione sociale e culturale del caffè, è senza dubbio Napoli. Qui, il caffè è molto più che una semplice bevanda: è un linguaggio universale, un modo di celebrare la vita, una pausa condivisa che unisce le persone. Quando si parla di valorizzare l’espresso come tradizione e momento di socialità, Napoli non ha rivali.
Tuttavia, sul piano della qualità, la realtà è diversa e Napoli non fa eccezione. Oggettivamente parlando, non è né meglio né peggio della maggior parte delle altre città italiane dove, mediamente, si tostano e consumano prodotti scadenti, senza grandi differenze geografiche. Questo è un dato su cui riflettere, perché è proprio questa mediocrità diffusa che ostacola il progresso del settore.
Ciò che manca in questa discussione è una visione strategica che vada oltre il prodotto in sé e abbracci l’intera esperienza del cliente. La qualità del caffè non può essere misurata solo in termini di aromi o perfezione tecnica. Deve essere accompagnata da un’esperienza che elevi il consumatore, trasmettendo valori di autenticità, cura e professionalità. Un cliente che entra in un bar non cerca solo un Espresso impeccabile: cerca un momento che lo faccia sentire speciale, un gesto che comunichi attenzione e rispetto, un’atmosfera che parli di passione e competenza.
Concentrarsi esclusivamente sul prodotto significa perdere di vista il quadro generale. È come perfezionare una singola nota dimenticando che la musica è fatta di armonia.
L’evoluzione necessaria del nostro settore sta proprio qui: non limitarsi a servire un buon caffè, ma creare esperienze che rimangano impresse, esperienze che il cliente vorrà raccontare e condividere. Questa è la vera sfida che il settore deve affrontare, e affrontarla richiede visione, coraggio e una profonda comprensione di cosa significhi davvero “qualità”.
Il cambiamento non nasce mai da uno sforzo individuale, ma da un lavoro di squadra. È facile puntare il dito contro i torrefattori, accusare i baristi di scarsa professionalità o criticare i consumatori per la loro mancanza di consapevolezza. Ma la verità è che il settore nel suo complesso manca di unità e, soprattutto, di una leadership visionaria che sappia guidarlo verso un futuro sostenibile e innovativo.
Prendiamo i baristi. Da anni si ripete che la formazione è importante, che serve passione per fare bene questo lavoro. Le aziende creano academy, offrono corsi gratuiti, si organizzano gare ed eventi. Eppure, il messaggio non arriva. Perché? Perché formare non basta: bisogna ispirare. Far capire che essere un Barista non è un ripiego, ma una professione con dignità, capace di influenzare la percezione della qualità nel paese.
Anche i torrefattori hanno un ruolo cruciale. La competizione al ribasso per conquistare nuovi clienti non fa altro che svalutare se stessi, il prodotto e minare il lavoro di tutta la filiera. È tempo di dimostrare che puntare sull’eccellenza a 360° non è un costo, ma una scelta strategica.
E poi ci sono i consumatori, spesso trascurati. Non possiamo aspettarci che pretendano qualità se nessuno gliela racconta. Serve una narrazione coinvolgente, che mostri cosa c’è dietro una tazzina, che li renda alleati in questo cambiamento. Educare non significa solo informare, ma creare consapevolezza e desiderio.
Tutto questo, però, non può funzionare senza unione. L’unione non è solo un bel concetto: è una necessità pratica. Senza un settore compatto, continueremo a inseguire soluzioni isolate che non affrontano il problema di fondo. E allora, la vera domanda è questa: quando inizieremo a pensare come un’unica entità, consapevole del proprio valore e del proprio potenziale?
La soluzione è immaginare un “movimento” che raccolga tutti: torrefattori, baristi, formatori, esperti e consumatori. Non un’altra associazione gerarchica e burocratica, ma una rete fluida e inclusiva, con un solo obiettivo: elevare l’Italia come guida mondiale nella cultura del caffè. Poche regole, nessuna gerarchia, una visione condivisa e la forza di una grande voce unitaria.
Un movimento così potrebbe bussare alle porte del Ministero dell’Istruzione per inserire la caffetteria come materia obbligatoria nelle scuole alberghiere, dandole lo stesso peso della pasticceria e della cucina. Potrebbe ottenere agevolazioni fiscali per rendere più sostenibile la gestione di attività imprenditoriali complesse. Potrebbe persino creare nuovi standard riconosciuti a livello internazionale.
Sono idee come tante altre, né migliori né peggiori. Ma nessuna di queste può diventare realtà senza un pensiero collettivo. Solo uniti possiamo riportare il caffè italiano al centro del panorama globale. Il problema non è cosa fare, ma come farlo, e farlo insieme.
Il servizio di Report, con tutte le sue semplificazioni e provocazioni, ha avuto il merito di accendere una luce su un settore che, nonostante le sue eccellenze, continua a nascondere molte ombre. Ma non è stato l’unico stimolo di quest’anno: la tempesta che ha travolto i futures del caffè ha rappresentato un’altra grande sfida, mettendo in crisi produttori, torrefattori e operatori a ogni livello.
Eppure, questa non è una condanna, ma un’opportunità. Le tempeste, per quanto violente, spazzano via ciò che non è solido, lasciano il cielo più limpido e ci costringono a ricostruire su basi migliori. È nel caos che l’essere umano si evolve, e il nostro settore non fa eccezione. Serve coraggio per riconoscere il dono nascosto nelle difficoltà, ma è proprio grazie a queste sfide che possiamo costruire un futuro più forte, più unito e più sostenibile.
Il caffè italiano ha un potenziale straordinario, ma non può più restare intrappolato in vecchi schemi, divisioni interne e un individualismo che paralizza ogni tentativo di crescita collettiva. La strada è chiara: unirsi, ispirare, innovare. Senza unione non c’è forza; senza visione non c’è futuro. È tempo di smettere di inseguire piccoli interessi personali e iniziare a costruire qualcosa di grande, che renda onore alla nostra tradizione e guardi con ambizione al mondo.
La domanda, ormai, non è più se cambiare o meno, ma COME. E la risposta, per quanto semplice, è anche la più difficile da mettere in pratica: insieme. Solo lavorando come un’unica filiera, consapevole della propria forza e del proprio valore, possiamo restituire al caffè italiano il ruolo che merita. Non solo in Italia, ma nel mondo.
Perché il caffè non è solo una bevanda: è cultura, connessione, esperienza. È l’espressione del nostro “savoir faire”, della nostra passione e della nostra capacità di trasformare qualcosa di ordinario in un momento straordinario. Questo è il messaggio che dobbiamo portare avanti. Questo è il futuro che dobbiamo costruire. Insieme“.
Matteo Borea