MILANO – Dentro la Factory 1895 di Settimo torinese, i tour coinvolgono anche i protagonisti dall’altra parte della supply chain: è qui che si trova Osvaldo Suchini, coltivatore di specialty del Guatemala in visita in quella che lui stesso ha definito come “La fabbrica di Willy Wonka per il caffè”.
La finca della sua famiglia, El Gigante – 40 ettari di foresta naturale, oltra ad 85 dedicati al caffè, con varietà come Catuai, Caturra, Pacamara, Geisha e Bourbon -, si trova nel punto più alto della Valle del Motagua, ad un’altitudine che varia dai 1560 M.A.S.L. ai 1700 M.A.S.L., ed un microclima caratterizzato da periodi di pioggia ben definiti e temperature importanti durante il giorno.
Suchini, ci racconta che cos’è per lei all’origine della filiera, il caffè?
“A questa domanda temo di dover rispondere in maniera romantica. Per noi il caffè è vita, in quanto produce acqua, ossigeno, ospita diverse specie di flora e di fauna ed è una fonte di lavoro per tantissime persone. Il caffè dà energia, unisce le persone, crea connessioni, è una benzina per creare scambi umani e commerciali.
Racconto sempre scherzosamente, che sono nato sotto una pianta di caffè: i miei primi ricordi da quando ho iniziato a camminare, sono l’immagine di mio padre che mi porta ad osservare nascere in piantagione le drupe. Il caffè crea vita.
Per questo motivo mi piace il concetto della coffee forest: non solo soltanto piante, ma un vero e proprio ecosistema.”
Come si è evoluta nel tempo la collaborazione con un grande player come Lavazza?
“Siamo davvero orgogliosi di lavorare con Lavazza. Abbiamo tanti clienti, ma la relazione con questa azienda è speciale, non soltanto per le loro dimensioni importanti, ma perchè abbiamo origini piemontesi e ci è sembrato di tornare un po’ indietro alle nostre radici. C’è una buona componente di orgoglio che ci ispira a svolgere il nostro lavoro nella migliore maniera possibile.
Abbiamo assistito nell’arco del tempo a diverse evoluzioni: la nostra prima collaborazione è partita con un blend. Studiare con Lavazza ci ha spinto ad adottare pratiche agricole più rigorose per aumentare ulteriormente la qualità della nostra materia prima.
Ha fatto scaturire in noi il desiderio di diventare sempre migliori, sino ad arrivare a quest’anno alla partecipazione nel progetto 1895 by Lavazza, diventando il caffè usato dal Gruppo Prada nelle Pasticcerie Marchesi 1984. È stato un traguardo molto importante per la nostra azienda, che ci ha fatto impiegare 3-4 anni di raccolti.”
Essere supportati da un brand così stabile, aiuta la via dello specialty?
“Sicuramente ci ha aiutato il loro sostegno, perché ci sfida a operare nel miglior modo per ottenere standard di qualità nei profili in tazza eccellenti. Lavazza è un esempio di un certo livello nel settore e con 1895 dimostra ancora una volta di essere un sinonimo di qualità. Essere produttori legati a questo brand ci dà visibilità, prestigio e ci riempie di orgoglio.
Era un nostro sogno che poi è diventato realtà.”
Visitare l’altra parte della catena, poi nella Factory 1895, che cosa lascia a chi è abituato a vedere l’inizio della pianta e non la sua trasformazione finale?
“Avendo visitato parecchi stabilimenti, sicuramente posso fare un paragone con quello che ho visto nella Factory che per noi professionisti del caffè è una vera e propria esperienza, indimenticabile. È una scuola tanto per chi non è abituato a vedere il caffè lungo la filiera, quanto per noi addetti ai lavori. I tour che hanno realizzato commuovono, sono la rappresentazione nella tecnologia, nell’attenzione al dettaglio di tutto il processo di un esempio da seguire per tutta l’industria.
Ci conforta sapere che il nostro caffè arriva in questo luogo e viene trattato adeguatamente, valorizzato per sviluppare il discorso dello specialty in Italia. È una visita che ti tocca il cuore.
È la terza volta che la visito, ma non mi stancherei mai di tornare. Con Cristiano Portis coffee designer di 1895 scopro qualcosa sempre di diverso.”
Rispetto agli aumenti del prezzo, la probabile attuazione del regolamento EUDR il prossimo anno, il contesto socio economico globale, la crisi climatica, il vostro caffè come sta reagendo?
“Anno dopo anno, la produzione di caffè diventa più complessa per rispondere agli effetti dei cambiamenti climatici che sono tangibili. Chi non ha agito già qualche anno fa, ora è in estrema difficoltà, tra costi più alti, scarsità di manodopera, siccità. Noi ci siamo mossi per tempo: abbiamo per esempio preservato diverse aree dell’azienda come riserve naturali, proprio per prenderci cura di appezzamenti che prima erano boschi e che resteranno tali per sempre.
Non vogliamo deforestare per coltivare caffè. Poi abbiamo avviato dei progetti interessanti: uno partito 4 anni fa, per cui abbiamo impostato il processo naturale anaerobico per l’85% della nostra produzione e questo ci porta a risparmiare mezzo milione di litri di acqua per raccolta.
Si consideri che all’incirca ci vogliono 300 litri d’acqua per produrre un sacco di caffè lavato da 69 chili. Dovevamo cambiare qualcosa.
Il nostro wet mill è un impianto che riciclava l’acqua ancor prima di cambiare processo, quindi potrebbero esistere dei contesti agricoli ancora più dispendiosi. Ora che abbiamo scelto questo altro metodo riusciamo a limitare gli sprechi.
Abbiamo poi avviato un giardino con oltre 20 varietà di caffè al suo interno. Stiamo sperimentando su di esse per creare profili resistenti alla siccità, alle malattie delle piante. Ci stiamo preparando per il momento in cui sarà ancora più difficile produrre alcune varietà.
Inoltre, ho iniziato a lavorare come consulente per una no profit del Guatemala, per condividere le nostre scoperte sui processi con altri farmers, così da ottenere un effetto moltiplicare delle buone pratiche. Gli altri produttori ci prendono come modello per qualità e innovazione e questo ci dà molta soddisfazione. Le persone possono accedere a migliori mercati in maniera più sostenibile.
Molti coltivatori vengono nel nostro coffee lab, per far assaggiare e analizzare il loro caffè per discuterne assieme.”
Quanto riuscite a produrre in un anno del vostro specialty e quanto ne esportate verso l’Italia?
“Ci siamo focalizzati sulla qualità e non sulla quantità. Produciamo soltanto specialty. L’Italia però ha una forte tradizione del caffè legata alla miscela con molta Robusta e non si è ancora abituati ad un prodotto specialty: noi riusciamo comunque a esportarne, anche se non con il nostro brand e la nostra azienda, ma è tutto in via di sviluppo rispetto ad altri Paesi europei. Con progetti come 1895 per fortuna ora si educano i consumatori per uscire dal concetto dell’euro a tazzina.
La nostra azienda esporta molto in varie zone europee, come la Germania, Lituania, Irlanda e poi con Dubai e Arabia Saudita. Ora esportiamo in 15 Paesi diversi. Alla fine dei conti noi non abbiamo clienti, ma amici: abbiamo rapporti molto stretti con i torrefattori e gli importatori. Per ora siamo soddisfatti così, più avanti si vedrà.”
Sensorialmente in tazza, lo specialty del Guatemala piace agli italiani?
“Penso che la maggiorparte degli italiani non ha mai avuto l’opportunità di assaggiare una vera tazza di specialty. Accade ovunque. Ma ho una certezza: sono convinto che chiunque nel mondo non solo in Italia, gusti una tazza speciale – al di là che sia del Guatemala o di Panama – non potrà tornare indietro ad un caffè commerciale. È successo con i miei amici, l’ho visto con i miei occhi. A quel punto non dovrebbero più lamentarsi neppure del prezzo: la gente è curiosa e inizia a farsi delle domande, a cercare delle informazioni e quindi è disposta a pagare di più per bere qualcosa di buono”.
Cristiano Portis conclude: “Per noi è importante il lavoro che è stato fatto negli anni da tutta la famiglia in piantagione. È incredibile, a livello naturale, la trasformazione, l’impatto sociale su chi vive e lavora in quelle zone prima un po’ trascurate.
Questa azienda agisce sul piano umano, partendo dalla creazione delle scuole per i dipendenti, continuando per la sanità e la cura dei lavoratori: sono tutti aspetti che molto spesso nel mondo del caffè non vengono percepiti adeguatamente. La realtà dei fatti di chi vive in questi posti, è molto più complessa: c’è un’attenzione forte al territorio e alla qualità del prodotto.”