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sabato 23 Novembre 2024
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Gianluigi Goi racconta il rapporto dell’artista Marietta Ambrosi con il caffè

Goi: "Profumati e assolutamente ben tostati gli episodi, gli aneddoti e i riferimenti al mondo del caffè che, descritti di prima mano da chi li ha vissuti, offrono piccoli ma significativi spaccati di “vita caffeicola alla bresciana” d’antan che ci sembra meritino una qualche attenzione. A questo punto è giunto il momento di entrare, cercando di assecondare con passo lieve la giovanile leggerezza dell’autrice, nel mondo domestico, tutto bresciano e cittadino, di Marietta: < In città la nostra casa si trovava in faccia (circa a metà) tra Duomo nuovo e Duomo vecchio>, in pieno centro storico, nell’omonima bella piazza ormai da diversi anni intitolata a Paolo VI, il grande papa bresciano traghettatore del Concilio Vaticano II. Una nota a piè pagina riporta che il lato occidentale “ove avrebbe avuto dimora la Ambrosi è caratterizzato da un palazzetto in stile neoclassico datato al 1809 dove ancora oggi sono presenti dei caffè.  "

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Gianluigi Goi è un lettore nonché giornalista specialista di agricoltura affezionato a queste pagine che con la sua lunghissima esperienza e il suo punto di vista ha contribuito diverse volte proponendo contenuti sempre interessanti. Questa volta Goi esprime le sue considerazioni sulla presenza del caffè nei ricordi dell’artista e modella bresciana Marietta Ambrosi. Leggiamo di seguito le sue considerazioni.

Marietta Ambrosi e il suo legame con il caffè

di Gianluigi Goi

MILANO – “Ben lo sanno gli enocultori: nella botte piccola prima o poi il vino raro, espressione di un territorio e delle emozioni di chi lo produce, viene scoperto o semplicemente conosciuto. Fuori di metafora, a chi scrive è capitato in questi ultimi tempi di imbattersi in alcuni – pochissimi, ma di sicura qualità anche grafica, oltre che di contenuto – libri pubblicati da Fen Edizioni, giovanissima casa editrice bresciana che fa perno sulla passione e la competenza di Pietro Freggio libraio di rango con ambizioni di editore di chicche libresche al profumo di cultura a 360 gradi.

“Vita di una ragazza – Marietta Ambrosi, una bresciana moderna nel mondo di fine Ottocento”, di Federico Vaglia e Sergio Masini (Brescia, seconda edizione – febbraio 2022)  è il classico libro che, a mio parere,  risponde in pieno ai requisiti di rarità e di sicura qualità alla “lettura/degustazione”.

L’autrice del testo – l’originale del 1892 di Marietta Ambrosi è in lingua inglese; Vaglia e Masini ne sono stati gli ottimi traduttori e gli estensori delle note e dei commenti, molto attenti e precisi – era praticamente sconosciuta; il livello letterario è elevato e, mi sia concesso sottolinearlo con piacere, questo “oggetto-libro” è stampato con sobria raffinata eleganza, inconsueta in questi tempi. Avventurosa – nel segno della serendipità, la fortuna che “aiuta” i ricercatori spesso nei momenti e nei frangenti più diversi e impensati – la scoperta della figura di Marietta Ambrosi indagata da Vaglia e Masini in quanto moglie di Marcus Waterman, statunitense, affermato pittore orientalista (1834-1914). Morì improvvisamente a Maderno, sulle sponde bresciane dell’altolago di Garda.  Riposa, con la moglie Marietta che ha chiuso gi occhi a Brescia il 5 giugno 1921, nel monumentale cimitero Vantiniano della città.

Marietta Ambrosi, terza di cinque figli, nacque a Rovereto (TN) il 10 febbraio 1852 da Pietro, intagliatore del legno di origine trentina e Lucia Cominelli, nata a Boston, in America, da italiani emigrati all’inizio dell’Ottocento. Nel 1871, a diciannove anni, per ragioni familiari, con la sorella maggiore e gli zii materni si imbarcò per Boston dove approdò il 28 novembre.

“La radicata passione per l’arte e il teatro fecero la fortuna della giovane che, da subito attratta dalla frizzante vita culturale di Boston, benchè lontana dai canoni estetici convenzionali divenne presto una delle modelle preferite di numerosi artisti. Arguta, brillante, solare, fu in quel raffinato e coinvolgente ambiente che conobbe Marcus Waterman, celebre paesaggista apprezzato tanto negli Stati Uniti che in Europa”.

Se ne innamorò. Non ebbero figli e viaggiarono molto. Nel 1908 – lei a 56 anni, lui 74 – dopo molti di convivenza, il matrimonio. Decisero di venire in Italia e Brescia, molto cara a Marietta, fu prescelta. Purtroppo il marito mori e Marietta rientrò in America da dove si staccò definitivamente nel 1920 per arrivare a Brescia dove morì a causa di una peritonite fulminante. Nel 1892, con una scelta per i tempi d’avanguardia, scrisse in lingua inglese, con stile molto vivace e sicura  capacità narrativa, i ricordi che aveva vivissimi dell’infanzia e della giovinezza vissuti a Brescia.

Il suo “Italian child life” (vita di una ragazza italiana) ebbe discreto successo e nel 1906 fu ristampato. La traduzione in lingua italiana è stata effettuata utilizzando un volume conservato presso la Libreria del Congresso (LOC) di Whashington, la più fornita al mondo.

Marietta Ambrosi con il nipote Francesco anni ’90 dell’800 (immagine concessa)

Prima di addentrarci negli episodi più specificamente legati al caffè, ci sembra utile sottolineare che i riferimenti al cibo, alla cucina e alle relative occasioni di incontro e di socializzazione, sono numerosi e profumano di schiettezza, di gioia e di voglia di vivere.

Molti in particolare quelli alla frutta e alle verdure ma non manca un omaggio molto sentito allo spiedo – a quei tempi rigorosamente con gli uccelli – ancora oggi piatto cult della cucina bresciana. Profumati e assolutamente ben tostati gli episodi, gli aneddoti e i riferimenti al mondo del caffè che, descritti di prima mano da chi li ha vissuti, offrono piccoli ma significativi spaccati di “vita caffeicola alla bresciana” d’antan che ci sembra meritino una qualche attenzione.

A questo punto è giunto il momento di entrare, cercando di assecondare con passo lieve la giovanile leggerezza dell’autrice, nel mondo domestico, tutto bresciano e cittadino, di Marietta: < In città la nostra casa si trovava in faccia (circa a metà) tra Duomo nuovo e Duomo vecchio>, in pieno centro storico, nell’omonima bella piazza ormai da diversi anni intitolata a Paolo VI, il grande papa bresciano traghettatore del Concilio Vaticano II. Una nota a piè pagina riporta che il lato occidentale “ove avrebbe avuto dimora la Ambrosi è caratterizzato da un palazzetto in stile neoclassico datato al 1809 dove ancora oggi sono presenti dei caffè.  <Sulla strada di casa nostra c’era, e vi è tutt’ora, il più grande caffè di Brescia>.

Si tratta del famoso “Caffè del Duomo” di Carlo Benotti che lo gestì dal 1846 fino al 1894 quando l’attività venne chiusa definitivamente. Il locale – specificazione riportata sempre in calce – precedentemente era noto come “Caffè della Carta”.  Nel capitolo “Come aiutai la mia patria all’età di sei anni” si apprende che <In una stanza vicino al nostro appartamento erano soliti tostare tutto il giorno il caffè. Avevano un vecchio dipendente di nome Romeo, di circa sessant’anni. Io lo conoscevo perché ero solita andare in quella stanza per aiutarlo a girare la manovella del tostacaffè, mentre mi raccontava storie di guerra.

In quell’anno c’erano stati in città molti militari di tutte le nazionalità: francesi, prussiani, croati austriaci, zuavi, turchi, etc. Piazza Duomo era sempre piena di soldati e così anche il caffè. Un giorno in piazza ci fu una parata militare e il povero Romeo desiderava vederla, così mi chiese di girare il tostacaffè mentre lui guardava fuori dalla finestra. Feci come mi aveva chiesto, Ma solo per un istante, perché quando udii alcuni insoliti rumori provenire dall’esterno mi affacciai a mia volta da un’altra finestra. Quando volsi lo sguardo trovai che la stanza era piena di fumo e il povero Romeo era spaventato: il caffè stava bruciando. Con un po’ d’acqua, tuttavia, riuscimmo a spegnere le fiamme>.

Sempre nello stesso capitolo, dal chiaro riferimento al patriottismo risorgimentale, troviamo una breve annotazione a dir poco insolita: <Durante la guerra del 1859 (la Seconda guerra d’indipendenza, svolta sanguinosissima quanto fondamentale per l’Unità d’Italia) noi bambini – scrive l’Ambrosi – guadagnammo molti soldi. Prima di tutto tagliando giornali in strisce da vendere ai vari caffè (qui i locali n.d.r.) dove i clienti le preferivano ai sigari>. Come dire segnali di fumo reali, e non solo metaforici, dalla carta stampata.  “L’uomo con la macchina rossa” è invece il titolo, che adombra un qualcosa a dir poco insolito e che poi si sostanzia effettivamente nella lettura di un capitoletto che in qualche modo tiene insieme il vissuto collettivo della preparazione della bevanda caffè con nientedimenoche del lucido da scarpe.

A prima vista un fatto stupefacente e incomprensibile che trova la sua spiegazione leggendo quanto segue: <Un’estate venne al mercato un uomo giovane molto alto. Scelse un bel posto dove posizionarsi e mise a terra dei paletti con una corda per delimitare la piazzola. Poi aprì un grande contenitore che teneva sul carro e ne estrasse una lucente macchina di macchina di rame che pareva una caffettiera russa e vi accese sotto un fuoco. Acuta  la nota dei curatori che considerano “la caffettiera russa” un samovar orientale opportunamente modificato per scaldare dei liquidi.

Marietta Ambrosi in abiti berberi (dopo un viaggio in nord Africa) durante una delle sue feste a tema a Boston dove viveva con il marito il pittore Marcus Watermann (immagine concessa)

<Mentre – continua il racconto della Ambrosi – la fiamma scaldava e bolliva alcune sostanze che conosceva solo lui, posizionò un tavolo vicino al carro e vi appoggiò una grande lastra di marmo. Sempre dal primo contenitore tirò fuori centinaia di piccole scatole di legno. Sparse le varie cose dove voleva, si rimboccò le maniche e, rivoltosi a noi bambini, chiese se volessimo aiutarlo e ci promise cinque soldi a testa… Aperte tutte le piccole scatole dovemmo quindi disporle in ordine sul tavolo. Mentre eravamo impegnati in questi lavori, il giovane uomo ci ripeteva indicazioni parlando rapidamente e continuando a distribuire vari ingredienti sul tavolo. Mischiò quindi quelle sostanze e mise tutto nella macchina, le lasciò bollire per qualche tempo, attirando nel mentre attorno a sé una folla incuriosita.  Spiegò ai presenti ch’era venuto nella nostra città per produrre e vendere lucido da scarpe, un lucido che non avevamo mai visto prima e che avrebbe venduto a solo un centesimo la scatola. … Terminato di parlare gettò uno sguardo all’orologio e aprì un rubinetto della macchina di rame da cui sgorgò il prezioso lucido. Ne prendeva un po’ alla volta, abbastanza da poterlo lavorare nel palmo della mano.

Dopo averlo steso sulla lastra di marmo, lubrificate le mani, ne fece piccole palline che noi dovevamo mettere dentro le scatole di legno con la carta di paraffina. Mia madre – piccolo tocco che dà significato ad una vicenda che sembra romanzesca, ma che tale non è, almeno fino a prova contraria – non sapeva di quel mio nuovo impiego e potete immaginare la sua sorpresa quando si avvicinò al carro e mi vide lì, con le maniche arrotolate e del nero lucido sul viso, mentre urlavo, contrattavo e prendevo soldi per vendere le scatole. Quando dissi al mio nuovo capo che quella donna era mia madre le regalò due scatole>.

Secondo me questo è teatro, teatro vero. Della vita: e in qualche misura il profumo, pur tenue, del caffè aleggia e lo si può anche percepire. Come a teatro.

Terminiamo questo excursus che la sensibilità gioviale e serena di Marietta Ambrosi ci ha consentito di fare, ripercorrendo una gita fuori porta “Alla Badia” – è anche il titolo del capitoletto – un convento di frati due miglia fuori dalla città, e <quel nome rendeva felice il cuore di noi bambini!> .. Ogni domenica lì è come se fosse vacanza data la moltitudine di persone che si possono incontrare ..  Noi ragazzini frequentavamo il catechismo domenicale in città ma, talora, l’insegnante ci avvisava che la domenica seguente ci avrebbe portati alla Badia. Sapevamo cosa significava e quindi preparavamo per l’occasione il nostro vestito più bello. … Quando suonavamo la campana, un frate di buon carattere si presentava alla porta.

Noi gli davamo i nostri fagotti con il cibo da cucinare e ci diceva di tornare per mezzogiorno ché il nostro pranzo sarebbe stato pronto. … Per passare il tempo salivamo allora su di una scalinata che portava fino al bosco (la zona è ancora oggi di pregio naturalistico e storico n.d.r.). All’inizio vi trovammo delle querce. Raccoglievamo le ghiande che sapevamo che ci sarebbero state utili. Ad esempio, quando mangiamo troppa farina di castagne o troppi spiedi (di cui noi ragazzini siamo molto golosi); le nostre madri ci facevano bollire quelle ghiande per farne un caffè. E’ il miglior rimedio per il mal di stomaco. Quando abitavo a Brescia ne ho bevuti a litri”.

Sulla scia di questi ricordi, con amarezza e un pizzico di irritazione, mi risuona nelle orecchie la risata sarcastica e tranciante del cosiddetto “Principe” (all’anagrafe in effetti lo era) della risata italiana, il celebre Totò, e la sua stroncatura della purtroppo famosa “ciofeca” che non era solo brodaglia pressochè imbevibile ma anche, e soprattutto, simbolo e retaggio delle fatiche e degli stenti di generazioni di contadini e di rurali delle zone interne più povere e disagiate. Non dimentichiamolo”.

                                                                                                               Gianluigi Goi

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