MILANO – Nella capitale esiste una fabbrica di cioccolato che ha 100 anni: il suo nome è Said, un brand che ormai è diventato sinonimo di qualità, un luogo in cui respirare e vivere il cioccolato in maniera immersiva. Ne abbiamo parlato con parlato con il titolare, Fabrizio De Mauro, forte della sua esperienza sul campo iniziata da bambino e tutt’oggi vivida nel suo racconto.
Said in tutto questo tempo, come si è evoluta e cosa invece è rimasto invariato?
“Quando trascorrono 100 anni di attività, attraverso tre generazioni, l’evoluzione si adegua ai tempi, così la sostanza di Said non è cambiata. Non abbiamo mai interrotto la produzione anche perché la nostra famiglia non si è mai staccata dall’azienda, lavorando in armonia.
Mio padre era figlio unico ma, avendo avuto tre figli, ha potuto contare su mia sorella e su di me per una moderna conduzione aziendale
Potrei dunque dire che Said è frutto della gestione negli anni di tre generazioni diverse; mio nonno, mio padre e infine io e mia sorella. Mio nonno era un agguerrito imprenditore che ha creato tutto da zero. Durante e dopo la guerra il business iniziale era basato sulla produzione di caramelle produzione che, nel corso del tempo, ha incontrato delle difficoltà.
Mio padre ha cercato di conservare l’operato di mio nonno, gestendo i debiti funzionali del post guerra. Io, arrivato in azienda circa vent’anni fa, ho cercato di adeguare ai tempi la produzione e iniziare a comunicare il nostro brand con i mezzi del marketing moderno.
Cosa invece è rimasta come cifra fondante di Said? Il cioccolato. Non l’abbiamo mai abbandonato ed è stato il nostro core business da sempre. A partire dal 2000, abbiamo creato dei prodotti di più alta qualità e in minore quantità, specializzandoci ulteriormente.
Le ragioni sono state dettate dall’amore per questo mestiere: c’è stato un momento in cui ho pensato di dar via l’azienda negli anni ‘90, perché non riuscivamo a reggere la concorrenza con la grande distribuzione che ha sbilanciato il mercato, ma a fronte di questa crisi ho portato avanti l’orgoglio di famiglia. A quel punto, per restare competitivi ho voluto puntare su un’altra modalità di lavoro, spingendo un discorso che ha fatto entrare le persone nella nostra fabbrica per conoscere il nostro marchio.
Questa scelta è stata particolare: il motivo per cui io e mia sorella abbiamo investito nell’azienda è per l’attaccamento viscerale a questo luogo in cui siamo nati e cresciuti. Mi ricordo che ballavo al ritmo dei macchinari in moto con il profumo del cioccolato: è qualcosa che ti rimane dentro.
Per cui, il percorso dello storytelling del marchio Said è stato quello di far entrare le persone dentro casa nostra e condividere la nostra storia, dai macchinari, alla materia prima. Questo è quello che ci ha dato un grande vantaggio e è stato molto naturale.
L’artigianalità da tre generazioni fa parte dell’esperienza culturale che può affascinare la gente che arriva da noi.
La fabbrica, riqualificata per aprirne le porte al pubblico, è rimasta però abbastanza integra con collezioni di stampe per la cioccolata uniche al mondo (ciascun pezzo può valere 200- 300 euro), rappresentando un patrimonio importantissimo da mettere in mostra.”
Il mercato del cioccolato invece in che modo è cambiato e come vi siete adattati?
“Ne abbiamo passate di tutti i colori, a partire dalla guerra con il bombardamento che ha colpito direttamente una parte dello stabilimento e il periodo del post con l’industrializzazione, poi l’avvento della grande distribuzione che è stata gravissima per noi lasciandoci fuori dal mercato.
La fase attuale è certamente terribile ma la supereremo: non è la prima volta che si verifica una cosa del genere e ora non si riesce bene a capire – siccome il cacao è quotato in Borsa – dove inizia la speculazione e dove invece gli effettivi problemi nella coltivazione. Ora si sente molto parlare della crisi ecologica e della produzione a rischio del cacao, ma non so se al momento il problema sia davvero quello.
In ogni caso questa è una notizia che è ben nota e noi cerchiamo di reggere l’urto, così come abbiamo fatto durante il Covid quando lo zucchero si vendeva ad un prezzo 5 volte più alto. Ora c’è anche il problema del trasporto con il blocco del Mar Rosso ma insomma, non è la prima volta che dobbiamo fronteggiare i rincari e quindi siamo un po’ allenati.
Siamo riusciti a mantenere invariati i costi, grazie a un sistema di campagne preventive: ho stoccato e quindi abbiamo potuto mantenere i nostri prezzi dell’anno scorso, pur non essendo economici. In una posizione come questa avremmo dovuto alzare il costo soltanto per reagire alle notizie che si leggono in giro, e invece abbiamo voluto restare in contatto con i nostri clienti fidelizzati.
Abbiamo anche negozi all’estero, dove i nostri soci sono stati selezionati da noi non tra i
grandi gruppi che pure ci hanno corteggiato, ma persone che hanno caratteristiche simili a Said.”
Come si fa a rimanere artigianali con dei numeri da industria?
“Abbiamo un indotto milionario, ma con una forza lavoro d franchisor che è una formula indiretta.
Nei nostri negozi si trovano i nostri cioccolati con una vendita artigianale, controllata. Ciascun punto registra i suoi numeri, ma non sono mai vicini all’industria. Siamo artigiani, perché vogliamo restare ad una decina di negozi con la qualità al primo posto.”
Da dove vi rifornite per il cacao Said?
“Le nostre masse le prendiamo da degli importatori. Purtroppo il bean to bar è una nota dolente: il problema è che non è più praticabile per le piccole aziende. Noi ci siamo occupati della trasformazione fino al 2000. Ma ormai c’è difficoltà nell’attingere al prodotto crudo con dei prezzi altissimi. Non riusciamo a competere.
Con le nostre masse di cacao creiamo le nostre miscele e i nostri prodotti. Per tre generazioni abbiamo lavorato a partire dalla fava di cacao e magari un giorno ci torneremo per delle piccole edizioni. Oggi sono un selezionatore, grazie al nostro storico con il cacao.
Questo perché più la nicchia fa attenzione al prodotto, più c’è bisogno di un background per
portare avanti l’eccellenza.”
Qual è il vostro target di riferimento?
“Il consumatore finale appassionato al prodotto che vuole capire il cioccolato e il lavoro che ci sta dietro. Tutti gli artigiani che si occupano del cioccolato per tradizione, sono emersi dopo la crisi creando un bacino di altissima qualità, e loro ci hanno permesso di creare un humus che recepisse questa nostra materia prima.
Abbiamo iniziato a dedicarci a questo con la vendita diretta al pubblico che ha registrato una grande svolta nelle preferenze: nel 2003 il 75% degli acquisti erano per il cioccolato al latte e ora l’80% è per il fondente. Il nostro cliente con gli anni ha imparato ad apprezzare il cioccolato e quindi il target è alto. Ci vengono a cercare, siamo diventati un punto di riferimento nel mondo artigianale.
Paradossalmente abbiamo creato una tendenza anche per le grandi aziende. Siamo diventati un piccolo fenomeno. Stiamo vivendo un momento particolare, perché adesso c’è una crisi importante che ha colpito anche le aziende più grandi che ora devono cercare di ritornare alla percezione del gusto, spostandosi verso il mondo più artigianale.”
Perché avete scelto la formula del franchising? Quali sono i pro e quali i contro?
“Non è una formula che io amo moltissimo: ci sono dei Paesi in cui ci siamo sviluppati, che devono rispondere a delle regole di un mercato economicamente e commercialmente diverso.
Qui il modello di business può funzionare ma sto mirando ad uno sviluppo diretto. Certo abbiamo costruito un sistema di franchising con dei partner che sono come una nostra famiglia e di questo sono molto contento, perché abbiamo mantenuto una dimensione intima che ci ha salvato sino a oggi. Ma sul territorio più occidentale con un controllo maggiore, la volontà è quella di creare un modello di business diretto.
Stiamo cercando di svilupparlo già a Roma, dove stiamo selezionando un negozio, per snellire il nostro modello e avere il primo punto vicino alla fabbrica e sperimentare la gestione diretta in maniera perfetta. Quando avremo rodato bene la macchina, saremo pronti a dare una spinta più veloce in più capitali non soltanto in Italia. Saremo molto attenti ad ogni singolo caso in Europa partendo dall’Italia.”
Quanti dipendenti avete a oggi?
“Siamo pochissimi, siamo 12 persone, con degli stagionali in rotazione. In media ogni nostro negozio in franchising ha di media 25 dipendenti e questo ci porta a totalizzare quasi 300 dipendenti di indotto che, anche se non sono dipendenti diretti nostri, ci amano.”
Nel futuro di Said c’è innovazione in termini di prodotto, di tecnica, di digitalizzazione?
“La nostra proiezione è di mettere i piedi un meccanismo di produzione capillare del nostro
prodotto, in modo da avere un network di negozi a vendita diretta per garantirne qualità, servizio e freschezza. Poi così si difende la nostra nicchia di mercato su cui siamo molto forti. Quello che ci aspettiamo è sviluppare questo sistema in Europa nei prossimi 3-5 anni.
E poi ora c’è già pronta la prossima generazione Said. La cosa più bella è aver visto i miei figli, i miei nipoti riuniti nel progetto famigliare insieme con il nonno che ha 98 anni. Per Natale ci chiudiamo in fabbrica per festeggiare tutti insieme. Ci definiamo artigiani indipendenti del cioccolato nell’ospitalità: quando le persone arrivano da noi, noi li ospitiamo. Questo è il nostro mestiere: inseguiamo il piacere più che il profitto e in questo ci ha salvato proprio il restare piccoli.”