MILANO – Mario Pascucci, amministratore dell’azienda marchigiana Caffè Pascucci, rappresenta l’esempio di un’imprenditoria di successo, attenta alla qualità del prodotto servito che passa non soltanto dal livello elevato della materia prima, ma anche dalla costruzione di una filiera, tracciabile, equa.
E qui scatta il tema delle certificazioni bio: sono delle garanzie, trovate di marketing, aiutano davvero il coltivatore oppure sono per loro irraggiungibili?
La risposta arriva da Mario Pascucci, che è esperto su questa questione importante
“Innanzitutto mi sta a cuore la filosofia che è alla base del biologico. La certificazione chiude un cerchio di iniziative partite in passato per costruire un sistema agricolo che possa garantire il non utilizzo di prodotti di sintesi come fertilizzanti o antiparassitari. Questo documento dà una garanzia rispetto a tutto ciò che viene fatto o meno da chi coltiva.
Ma al di là di questo, quello che davvero conta è il voler sposare un sistema di questo genere, che per alcuni può apparire addirittura un passo indietro sulle pratiche agro-tecniche, ma che in realtà è forte di una fiducia verso la natura, che possiede già autonomamente gli elementi per migliorare la produttività e proteggersi.
Ci sono tecniche contadine che consentono di ottenere gli stessi risultati non usando i prodotti di sintesi di chi invece li applica.
L’industria chimica ha condizionato tantissimo l’agricoltura sin qui. Basta pensare alla nostra del grano o delle sementi italiane: un produttore che ha iniziato ad utilizzare i fertilizzanti chimici dagli anni ’70 e volesse smettere oggi, perderebbe certamente l’80% delle produzioni del suo terreno. Il farmer che ha sposato l’utilizzo della fertilizzazione chimica ne sconta oggi una totale dipendenza.
Le aree rurali dove non sono stati utilizzati, mi riferisco soprattutto a quelle dei piccoli agricoltori nel sud del mondo che spesso non possono permettersi di acquistare fertilizzanti o antiparassitari di sintesi oggi potrebbero convertirsi facilmente, queste aree di fatto sono già bio.
Noi siamo entrati a far parte di questo percorso innanzitutto perché proveniamo dalle Marche, un’area geografica in cui l’agricoltura naturale è più evoluta, in questa regione nascono i pionieri del biologico, i padri fondatori come Gino Girolomoni.
Sono loro che ci hanno contaminato e lasciato in eredità la visione, la filosofia. Gino alla fine degli anni 60 aveva già capito che l’uso indiscriminato della chimica avrebbe causato danni incalcolabili ed iniziò la sua battaglia per contrastarla – all’inizio è stato preso per un Don Chisciotte ma oggi nelle Marche più del 27% dei terreni sono certificati biologico, in un trend di crescita tra l’altro positivo, mentre la media europea è di gran lunga inferiore al 10%-.
Oggi Gino non è più con noi ma posso dire che questa è una delle sue più grandi vittorie.
Circa 18 anni fa assieme a lui abbiamo preso contatto con diversi agricoltori in alcune parti del mondo nella volontà di esportare un sano modello di cooperativa, una unione alla marchigiana, mettere insieme famiglie di agricoltori per riuscire a certificarli acquistando da loro in modo diretto. Abbiamo anche collaborato con farmer già avviati in questo processo, che all’epoca erano davvero pochi.”
Pascucci, se dovesse fare un confronto tra allora e oggi, cosa è cambiato nel biologico?
“E’ un mercato che si è evoluto tanto rispetto a 15 anni fa, perché ormai anche alcuni grandi torrefattori internazionali stanno sollecitando a effettuare questo cambio di rotta. La richiesta da parte dei consumatori poi, favorisce un’ulteriore crescita.
Tra noi trasformatori, prima eravamo tre-quattro, mentre ora cominciamo ad essere di più. Chi acquista ha cambiato la sua sensibilità, così come chi trasforma e produce. Che sia per filosofia o per business piuttosto che per marketing resta comunque un bene che ci si muova in questa direzione. Più saremo meglio sarà. “
Ma qual è il costo di una certificazione biologica?
“La certificazione in sé per sé non costa troppo, ma servono tante risorse finanziare per fare la conversione: gli agricoltori per esempio del Brasile, il Paese che ha fertilizzato di più negli anni, se smettessero ora, potrebbero perdere tutto il loro raccolto ed entrare in povertà. Proprio qui ci sarebbe bisogno di supporto per convertire le produzioni, da parte delle autorità e dei Governi locali.
Parliamo però sempre di un passaggio che dura decenni. Non si può pensare, come dice l’Europa, di fare tutto da un giorno all’altro, ma l’importante è iniziare. Se i ministeri agricoli di questi Paesi iniziassero a contribuire maggiormente nel sostenere chi fa il cambio, allora più persone vorrebbero partecipare.
Non solo per il caffè, ma anche per l’agricoltura europea sé dipendesse da me sosterrei tanto di più chi transita verso il biologico e in modo minore o nullo chi produce utilizzando i prodotti di sintesi.
Saranno necessari anni perché i terreni possano tornare in vita, perché ora sono più che morti. E per far capire quanto lo sono, faccio un esempio pratico: la nostra capsula vegetale, su cui abbiamo svolto test e ha ottenuto certificati da diversi enti dedicati, una volta esausta rimane in parte come materiale organico nella fibra del contenitore e in parte come fondo di caffè; bene, quando viene gettata in un terreno di quelli fertilizzati – che io appunto definisco morti -, in 6 mesi ancora non degrada.
In un orto bioattivo invece, dove si riproduce perfettamente ciò che in natura avviene in un bosco immacolato, la nostra capsula sparisce in meno di un mese. Questa è la dimostrazione che il terreno fertilizzato chimicamente e quello naturale, sono totalmente differenti. Il primo lo definisco morto e l’altro ricco di vita“.
Quindi questo sistema non ha ombre, o svantaggi per il coltivatore?
“Se si fa per filosofia, ogni iniziativa è dotata di anima e si migliora insieme: non è soltanto l’aspetto della tutela dell’ambiente in gioco, ma anche il riportare in equilibrio il modo in cui esistiamo nell’universo. Invece scegliere il biologico per business ha comunque ripercussioni positive sulla purezza e sanità del prodotto, ma è tutta un’altra cosa.
Il coltivatore singolo che produce pochi sacchi di caffè non può certificare la sua piantagione perché non avrebbe i numeri necessari per poter sostenere i costi di certificazione e di analisi.
C’è anche un altro problema: abbiamo conosciuto degli agricoltori che non erano in grado di firmare, perché analfabeti. Gli ostacoli sono diversi e per questo la nostra strategia è stata quella di rivolgerci alle cooperative o di spingere i farmer ad unirsi: essere in tanti, può consentire di sostenere questi costi. Insieme possono anche esportare in modo diretto il loro prodotto.
Noi nel concreto abbiamo fatto un passo in più: in un centro di raccolta del Burundi, il Paese più povero del mondo, gli agricoltori non comprano i fertilizzanti, ma usano ciò che hanno a disposizione in natura e mettono in vendita delle produzioni più che buone.
Sappiamo, avendo svolto le analisi, che non ci sono anomalie e tracce di residui chimici, e che quindi si tratta di caffè biologico seppur non certificato. Come Pascucci riconosciamo l’eticità di quell’azienda e per questo la sosteniamo, il nostro obiettivo è riuscire a portarli ad ottenere la certificazione.
Sono 700 famiglie e tra qualche anno, con un’agronoma sul posto, potremmo mapparli completamente, coinvolgerle in cooperativa e ottenere la certificazione.
Crediamo in questa filosofia, affinché si diffonda e quindi acquistiamo quel caffè anche se non certificato a un prezzo più alto.”
Quanto è in media il costo di un biologico e il consumatore davvero è disposto a pagare la differenza?
“Per i fruitori il biologico ha mediamente un 30% di valore in più rispetto al convenzionale e questa percentuale sarebbe quella massima. Se si supera c’è qualcosa che non va, meglio interrogarsi. In questo momento con la borsa alta un 13-14% in più è destinato agli agricoltori. Ciò che ovviamente condiziona molto oggi è la logistica.
Sicuramente il biologico è ancora una nicchia e come tale soffre nei volumi, nello scambio e nei trasporti.
Ma la riflessione che va fatta è più ampia, tocca anche ciò che sta succedendo con gli scioperi degli agricoltori in tutta Europa: se gli agricoltori smettessero di fertilizzare chimicamente tutto in un momento, vedrebbero crollare le loro produzioni. Quindi, l’iniziativa dell’Europa e dei ministeri agricoli è giusta, ma va raggiunta in un percorso di più anni.
Personalmente ritengo che nell’agroalimentare l’Italia dovrebbe essere un esempio di produzione biologica perché produce ed esporta qualità.
In futuro il biologico dovrebbe essere un contenuto scontato delle produzioni qualitative. Il Bio è garanzia di certezza nella materia prima, solo dopo questo viene la capacità di trasformazione delle imprese. Mantenendo una filiera aperta e mostrando al cliente questa trasparenza assoluta con un prodotto finale eccellente, cambieranno le cose, il prodotto italiano sarà inattaccabile sotto tutto i punti di vista. L’industria alimentare italiana però al momento fatica a guardare avanti, raccoglie in abbondanza i frutti delle sue tradizioni ma oggi dovrebbe fare un passo indietro e gestire meglio la sua filiera e i suoi volumi produttivi. Questo per tutti gli alimenti e soprattutto nell’industria delle carni.
Essere vocati al biologico per filosofia o per business cambia anche nella volontà di sostenere chi è rimasto fuori dal sistema della certificazione: lì sta il vero impegno da parte dell’impresa. Non è solo nei documenti e nella burocrazia la verità.
Se è vero che la materia prima è biologica ma non ha la certificazione, si lavora insieme tra produttore e trasformatore per raggiungerla. Siamo sempre di più: anni fa eravamo pochissimi attenti a questo tema. In Italia eravamo due-tre a parlarne e oggi trovo tanta sensibilità anche nella grande industria.
E questo è positivo: siamo certi che quel pacchetto di caffè se analizzato non avrà ad esempio il glifosato. È importante che si continui a promuovere questa vocazione, che non ci siano timori a condividerla e che ci si creda in tanti in modo assoluto.
Tra 15 anni come la vede?
“Il biologico deve essere una parte di quella confezione che non si guarda neppure più perché ormai è dato per scontato. Dietro, il trasformatore ha scelto la materia prima più giusta sotto tutti gli aspetti, dal suo trattamento alla sua provenienza. Un domani questo è il sogno.
Probabilmente dovremmo anche sprecare meno e pensare che non è giusto buttare via il cibo. Ed ecco che la differenza di prezzo viene recuperata. E scusi se insisto, l’Italia deve esserne paladina della diffusione del bio, tutti dobbiamo farcene promotori. Perché ci sono gli strumenti giusti, perché siamo in anticipo sul resto del mondo e perché possiamo condizionarne il futuro”