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venerdì 22 Novembre 2024
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Caffè Galeotto, parla il roaster che ha imparato in carcere: “La miscela era un’abitudine ora è diventata una passione”

Il tostatore: “Consiglierei di farlo ad altri nella mia situazione, ma avendo un minimo di preparazione alle spalle: molti si avvicinano senza conoscere un minimo il macchinario e prima di arrivare a tostare e a trasformare il chicco, bisogna comprenderne bene le dinamiche"

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MILANO – Abbiamo già parlato del progetto di Caffè Galeotto portato avanti da Mauro Pellegrini, presidente di Panta Coop, cooperativa sociale che da oltre 20 anni si occupa di reinserimento lavorativo dei detenuti Carcere Rebibbia Roma. Ora torniamo a descrivere l’iniziativa della torrefazione e di tutti i passaggi nella trasformazione del verde, dalla sua selezione alla creazione della miscela con Domenico A., detenuto in art. 21 che recita: “I detenuti e gli internati possono essere assegnati al lavoro all’esterno in condizioni idonee”.

Domenico è un giovane romano che da quasi nove anni ha esplorato e consolidato questo mestiere e intanto, ha quasi raggiunto il traguardo della laurea in Lettere e Filosofia.

Domenico, ci racconti un po’ la storia che l’ha portata a scegliere di imparare a torrefare con Caffè Galeotto, il caffè le piaceva?

“Ho cominciato quasi nove anni fa a lavorare in torrefazione: prima bevevo molto caffè, ma facendolo come mestiere mi sono appassionato e ho voluto acquistare dei libri per comprenderne la storia, studiarne le modalità di consumo nei tempi passati, quando addirittura si usava come con il tè, il verde senza tostarne i chicchi.

In questo percorso sono stato affiancato da un ragazzo che tostava prima di me: è stato lui a farmi vedere come funzionava la macchina. Ho seguito un corso di roasting per imparare le nozioni di base e poi con il tempo ho sviluppato una certa esperienza attraverso la pratica.

In torrefazione abbiamo due macchinari, una Petroncini che che arriva ai 20 chili a conduzione termica e una da 150 (noi la usiamo per 120 chili) a convezione. Negli anni ho imparato a gestire grosse quantità e realizzare miscele sempre più omogenee. Ho perfezionato questa capacità, che è poi è il cuore della tostatura.

Mi trovo molto meglio con la Petroncini, perché riesco ad ottenere un risultato più costante. Ho anche sviluppato un mio metodo che ho perfezionato: quando svuotiamo la macchina dai 120 chili, ho notato che i primi chicchi non sono uguali agli ultimi. Allora ho cominciato a provare a spegnere il gas ancor prima di terminare la tostata, così la macchina all’ultimo cuoce soltanto con l’aria calda a 180 gradi.

Quando apriamo il portellone, la temperatura quasi si stabilizza. Tra uno spegnimento e un’accensione passa oltre un minuto e quindi riusciamo anche a non sforzare il bruciatore della macchina e consumiamo anche meno gas.

Prima facevamo tutti i giorni una media dalle 30 alle 35 tostate al giorno per fare 45mila chili di caffè al mese, ogni tostata durava dai 16 ai 17 minuti per 7 ore lavorative. Per Caffè Galeotto producevamo sino ai 900 chili al mese di grano, mentre ora siamo sui 700 chili al mese.

Mi piacerebbe molto provare a tostare dei monorigine. Ho seguito un corso di sommelier è mi viene spontaneo paragonare l’uva al caffè, ognuno con il suo sentore specifico: sarebbe bello cercare tutte queste caratteristiche nella single origin. Ancora però non ho avuto modo di esplorarle e assaggiarle, ma sono molto curioso di trovare gli aromi.”

Che cos’era il caffè prima e dopo di Caffè Galeotto per lei?

“Prima era un’abitudine: mi svegliavo e lo bevevo o con gli amici. Ora è una passione. Persino facendo l’Università di lettere e filosofia, ho incontrato un professore di antropologia appassionato di caffè e ci siamo messi a discuterne insieme: un libro me l’ha passato proprio lui, sulla storia della bevanda.

Ormai, quando mi capita durante i permessi di entrare nei bar, mi metto ad osservare il caffè utilizzato. È difficile trovarne di buono.

Con la torrefazione ho avuto modo di conoscere diverse origini: fin qui abbiamo trattato verde dal Centro e Sud America, Centro Africa, per l’Arabica dalla Colombia, Brasile, Honduras e anche dal Centro Africa. Mentre la Robusta la prendiamo dall’India: dal Vietnam non la prendiamo, perché è un caffè che ci ha convinto di meno.”

Le piacerebbe andare in piantagione una volta uscito?
“Certo, può essere tutto.”

Nel futuro cosa pensa di fare, continuare nel settore?

“Prima di entrare in carcere vendevo vino ed è per quello che ho insistito tanto per partecipare al corso di sommelier. Mi piacerebbe fare lo stesso con il caffè: ho acquisito molta esperienza e riesco ormai a riconoscere il verde e il crivello: saper individuare quanta Robusta e quant’Arabica c’è in una miscela e qual è il crivello, ti può aiutare a capire che qualità di caffè stai trattando e come sviluppare le percentuali in maniera corretta.

Per cui sì, l’idea è quella di continuare sempre nel settore caffè, magari approfondendo la teoria. Sto attualmente aspettando di discutere la mia tesi sul comportamento umano, partendo da quello anormale, studiando le norme, le leggi, sino a quello deviante, patologico e illegale.”

Com’è è riuscito a impegnarsi ad imparare questo mestiere e anche portare a termine un percorso di studio, nonostante il contesto?

“In questo posto c’è tanto tempo morto e star fermi fa tornare il cervello al problema e ai motivi che ti hanno portato dentro. Tutto è amplificato. Quando sono entrato non ero riuscito ancora a prendere il diploma delle superiori: qui invece ho terminato e ho fatto l’università. Così la testa è restata occupata e ho voluto e saputo sfruttare al meglio questo tempo dai 29 anni al mio ingresso a oggi, che ne ho 40.”

Miscela preferita?

“Primula rossa miscela da 80% Arabica e 20% Robusta, che abbiamo usato solo per avere un po’ più corpo e un po’ di crema in tazza. È la mia preferita perché abbiamo studiato molto per ottenerla, cucinando ciascuna monorigine, assaggiandole per trovare un connubio armonioso. Il lavoro che abbiamo fatto dal crudo alla miscela è stato complesso che mi ha dato parecchie soddisfazioni.

Ma quella invece che viene preferita è la Ricercato, 60% Arabica e 40% Robusta.”

Lei suggerirebbe ad altri nella sua condizione, di provare un progetto come Caffè Galeotto?

“Consiglierei di farlo ad altri nella mia situazione, ma avendo un minimo di preparazione alle spalle: molti si avvicinano senza conoscere un minimo il macchinario e prima di arrivare a tostare e a trasformare il chicco, bisogna comprenderne bene le dinamiche. Negli anni ho insegnato a tante persone a utilizzare la piccola. Purtroppo poi le persone se ne andavano e non siamo mai arrivati a insegnare a usare quella grande, ma sicuramente è un percorso che suggerirei di iniziare.”

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