di Emanuele Bompan*
HAITI – «Café naturel, monsieur», tende la mano una signora del mercato di Aux-Cayes, costa meridionale di Haiti. Da una piccola tazza di ceramica si diffonde un aroma forte, aspro. Un caffè mediocre, impoverito. Contrasta il sapore dei chicchi selezionati che si trovano nei mercati del centro o nei caffè eleganti, dove si ascolta Konpà, il sound haitiano per eccellenza.
Il café naturel, ricavato da chicchi seccati senza separare la buccia, e spesso anche da semi acerbi, è l’emblema di Haiti oggi. Un’isola aspra, che fatica a ripartire, affaticata da centinaia di anni d’ingerenza straniera, da dittature e calamità naturali.
Sin dai tempi dalla liberazione dai francesi, che costrinsero Haiti sotto il giogo di un debito impossibile da saldare, il caffè è stato un elemento di crescita economica e motore di sviluppo del paese.
«Con il caffè Haiti ha saputo crescere», spiega Jean Marc Louizaire, 46 anni, presidente della cooperativa Cacem. «Fino al 1988 è stata la filiera produttiva più importante del paese. Per sapere come sarebbe andata l’economia, bastava informarsi sull’andamento del raccolto del caffè? In base al prezioso chicco si misurava la produttività dell’intero paese».
Eppure alla fine degli anni Ottanta tutto è cambiato. Si è parlato di “speculatori stranieri”, e ha pesato anche l’embargo commerciale degli USA del 1991, legato al colpo di stato dei militari per deporre J.B. Aristide. Fatto sta che da allora la produzione del caffè è stata riportata indietro di 100 anni.
«Al posto del caffè di qualità la gente è tornata a produrre e usare il caffè naturale», continua Louizaire. «La maggior parte delle piantagioni sono state abbandonate a causa dei prezzi troppo bassi di mercato, dovuto alla competitività del mercato globale. Sono oltre 30 anni che nelle piantagioni non si rinnova la produzione. Le cooperative non hanno saputo innovare e, con il crollo del prezzo del caffè, in tanti hanno iniziato a produrre fagioli»
Oggi in Haiti per quanto riguarda il caffè la produttività media è decisamente inferiore a quella della Repubblica Dominicana, con solo 100-150kg di prodotto per ettaro. La natura ci ha messo del suo: dal 2000 è arrivata la Broca, la ruggine del caffè, che ha ulteriormente scoraggiato la produzione del caffè.
Nel frattempo è aumentata l’intensità dei cicloni legata al cambiamento climatico, che ha spesso decimato il raccolto. Per suggellare tutto è infine arrivato il terremoto. Qua il danno è stato sul versante della domanda. E gli haitiani impoveriti sono tornati a bere il caffè di bassa qualità.
«Questo è un dramma: la perdita di produttività dalle zone rurali è costante, spiega Silvio Distilo, capo-progetto Oxfam Italia a Aux Cayes. «Molti giovani fuggono lasciando un ambiente privo di meccanismi di difesa, andando ad affollare le periferie di una città che offre solo mercati informali». Abbandonate le piantagioni, i contadini rimasti abbattono e bruciano gli alberi per produrre carbone vegetale, devastando l’ambiente. Oggi rimane solo il 2% della foresta primaria originale dell’isola.
«Rilanciare la filiera del caffè significa rilanciare Haiti» dice Claude Pericles, di Coop Plaisances, 70 anni, seduto insieme ad altri rappresentanti delle cooperative del caffè, che annuiscono seri. «Basta con il café naturel», gli fa eco Luisezaire, «Haiti deve anche saper riattivare una coltura di caffè di qualità, puntando sia sul mercato interno ma anche sull’export in futuro, che darà lavoro a molte famiglie rurali». Famiglie che, secondo l’Onu, oggi vivono con meno di un dollaro al giorno.
Oggi ci sono 100 cooperative del caffè in tutto il sud del paese, la principale area produttiva. Ne fanno parte duemila produttori, riuniti nella rete Recocas, intenzionati a riprendere in mano le sorti dell’economia agricola del paese.
Qua dal 2008 Oxfam Italia sta lavorando, grazie a finanziamenti di Ministero degli Affari Esteri, Lega Coop e Regione Toscana per cercare di garantire una migliore qualità del caffè, un programma implementato anche nella zona della Sierra Barohuco, nella vicina Repubblica Dominicana.
«Abbiamo investito sul miglioramento del qualità del caffe con l’installazione di centri di lavaggio, centri di essiccamento e infine un laboratorio di trasformazione, per finalizzazione e impacchettamento, e per classificazione e analisi organolettica», spiega Gabriele Regio, Coordinatore Binazionale per Oxfam Italia.
Il caffè cresce nelle foreste lungo i pendii montuosi dell’isola. Tante zone sono distanti anche due ore dal primo centro abitato servito da una strada asfaltata. Spesso mancano le infrastrutture, e in molti casi le piante sono “anziane” e poco produttive.
«Per questo abbiamo realizzato dei vivai comunitari per ripiantare più di 300mila piante di caffè tra il 2011-2013», continua Regio. La Ong italiana offre anche un appoggio alla commercializzazione, con un progetto che è partito nel 2014 e vedrà sfruttare soprattutto canali locali, in particolare il nutrito mercato di cooperanti e funzionari presenti sull’isola.
Le qualità organolettiche del caffè lo rendono un progetto interessante che in 8-10 anni potrebbe portare ad un nuovo prodotto tipico di qualità. È quel che è capitato al famoso «Jamaican Blue», diventato un caffè gourmet ricercatissimo sui mercati dagli appassionati. Ma se in Repubblica Dominicana il caffè locale (anche qui promosso grazie a un programma di Oxfam) ha trovato supporto da parte di Altromercato-CRM e Slow Food, ad Haiti ancora non c’è un livello di produzione tale da soddisfare la domanda.
Il dado però è tratto. L’Incah, l’istituto per il caffè haitiano, ha creato un piano di sviluppo decennale che, secondo numerosi intervistati, potrebbe essere una svolta nello sviluppo del paese e nella tutela dell’ambiente. «Impariamo molto e crediamo che questo tipo di progetti serva realmente al paese». Far ripartire Haiti, insomma, una tazzina alla volta.