Emanuele Dughera è il coordinatore della Slow Food Coffee Coalition, un’organizzazione con l’obiettivo di promuovere la qualità del caffè con particolare riguardo alla tutela della biodiversità e dei diritti dei coltivatori. Dughera rivela i motivi dietro la creazione della rete, ponendo particolare attenzione all’aspetto della formazione e dell’importanza di una maggiore consapevolezza verso un caffè sostenibile da un punto di vista economico e sociale in tutta la filiera del chicco. Leggiamo di seguito le sue considerazioni.
Dughera, cos’è la Slow Food Coffee Coalition? Qual è il motivo principale dietro la creazione della rete?
“È una rete aperta collaborativa internazionale che unisce tutti i principali attori e stakeholder della complessa filiera del caffè, dai produttori fino ad arrivare ai consumatori, con un grande obiettivo in comune: coltivare, promuovere e bere un espresso “buono, pulito e giusto” come recita il mantra della Slow Food Coffee Coalition.
Secondo noi un caffè pulito è di primaria importanza poiché sosteniamo prodotti provenienti da una coltivazione agroforestale e tecniche agro ecologiche: si tratta di una materia prima che cresce nel rispetto della natura e della biodiversità che è anche locale.
In questo modo i produttori detengono la funzione di custodi e difensori di quella particolare biodiversità e della natura locale.
Sappiamo bene che l’emergenza climatica sta mettendo a dura prova la coltura di caffè, soprattutto per quanto riguarda l’Arabica.
Ci sono molte soluzioni tecnologiche messe in campo: alcuni pensano persino di spostare le colture di caffè in altri luoghi. Secondo noi la cosa più importante da fare è coltivare il chicco nel rispetto della natura e quindi non aggredendo i prodotti con troppi input chimici o tecniche di agricoltura nocive.
Quel caffè deve essere tracciato, soprattutto nelle sue parti d’origine, ed è imprescindibile far sapere e indicare chi sono quei contadini che hanno coltivato quel caffè e dove. Dubito che dei consumatori attenti comprerebbero un vino che riporta dicitura “Prodotto in Europa o in Italia”. C’è bisogno di informazioni aggiuntive.
Questo ci fa arrivare al secondo motivo della nascita della Slow Food Coffee Coalition. C’è un grande scollamento tra il mondo della produzione e quello del consumo. Il produttore di caffè raccoglie delle ciliegie che vende a qualcuno ma, molto spesso, non sa a chi e dove andranno a finire. Il consumatore invece non sa quasi nulla.
Nelle nostre osterie Slow Food, segnalate nella Guida Osterie d’Italia Slowfood, ci sono luoghi in cui viene data grande attenzione verso la provenienza della materia prima che il cuoco prende e modifica. Questo è il caso anche del caffè.
Molto spesso, in determinate realtà, nonostante l’attenzione verso la materia prima, non c’è abbastanza consapevolezza di come poter bere, fornire e acquistare caffè, o anche altri prodotti, di più alto standard che rispetti determinati criteri che noi abbiamo definito “buono, pulito e giusto””.
Dughera, in cosa consiste il Manifesto dell’associazione? Sotto quali principi è stato redatto?
“Il Manifesto è diviso principalmente in due parti. La prima comprende dieci pilastri che corrispondono alla tutela dell’ambiente e degli ecosistemi, salvaguardia dei diritti dell’uomo lungo la filiera, inclusività a prescindere dall’identità di genere, razza, religione o età, trasparenza, tracciabilità e diritto al piacere gastronomico.
Quest’ultimo è uno dei motivi fondativi di Slow Food: il diritto al gustare un cibo buono. Questo ovviamente è anche valido per il caffè. Nella seconda parte del Manifesto si trovano delle prime indicazioni di messa in pratica concreti che i maggiori attori della filiera (agricoltori, barista, torrefattori, aziende) possono adottare verso la consapevolezza della sostenibilità.
Abbiamo anche redatto un tool kit (Brewing a better world) che riassume gli step essenziali per riconoscere un caffè in modo più consapevole anche dal punto di vista del gusto, senza consumarlo come un semplice prodotto.
Secondo noi il caffè non deve essere visto come una commodity ma bensì come un prodotto agricolo che nasconde un mondo dietro la sua produzione e, in quanto tale, deve essere rispettato da tutta la filiera.
Promuoviamo da sempre la formazione e la valorizzazione del caffè. Il consumatore ha però la forza di chiedere e domandare informazioni specifiche sul caffè e con il tempo, si spera, il mercato e la rete si adeguerà ad offrire un prodotto sempre più qualitativamente alto e sostenibile.
Ci piacerebbe perciò formare sempre di più i consumatori con il monito di prendere in considerazione un acquisto più consapevole del caffè.
Ovviamente ognuno fa le proprie scelte in base al gusto, la disponibilità economica e sociale. È importante però non bere semplicemente un caffè per superare la mattinata in ufficio ma essere pienamente consci di ciò che si sta bevendo”.
Dughera, quanto è importante la formazione di ogni componente della filiera del caffè (dal contadino al produttore) per una maggiore consapevolezza generale della sostenibilità del settore?
“È molto importante. In alcuni casi bisogna specificare la differenza tra formazione ed educazione. Nel caso dei contadini hanno bisogno di un training e formazione approfonditi poiché, spesso, non conoscono il valore del loro caffè dato che non l’hanno mai saputo e non hanno gli strumenti per riconoscerlo.
Quando qualcuno va a comprare un prodotto di cui il venditore non sa il valore si parte subito svantaggiati. Dal punto di vista dei consumatori c’è invece più bisogno di educazione piuttosto che training e formazione: non devono essere esperti operatori del settore.
Quello di cui necessitano è qualcosa che tocchi la loro sensibilità e si parte dal fattore della sostenibilità, della sua reperibilità e dei diritti dei lavoratori. Sicuramente una maggiore consapevolezza è sempre utile”.
Che ruolo gioca la tecnologia nella sostenibilità ambientale ed economica della filiera e per una maggiore valorizzazione del prodotto?
“La tecnologia può essere un grande aiuto. In piantagione è ormai quasi d’obbligo applicare diversi processi grazie all’aiuto tecnologico. Prendendo come esempio la tracciabilità blockchain, in cui viene emesso un dato che non può essere modificato per la tracciabilità del caffè, può essere senza dubbio importante per il consumatore per capire da dove provenga il prodotto che consuma.
Tuttavia, dipende molto come questa tecnologia viene usata. Spesso si associa blockchain a sinonimo di tracciabilità trasparente ma non è sempre questo il caso. La blockchain è un modo tecnologico avanzato che traccia alcuni dati ma dipende spesso che dati vengono emessi e se corrispondono alla realtà.
Dipende da che cosa noi vogliamo far sì che sia trasparente. Alla fine la rivoluzione tecnologica in atto dipende da come si usa”.
Cosa è e come funziona il Sistema di garanzia partecipata nella filiera del caffè?
“Per il momento abbiamo ricevuto buoni feedback. Le comunità appartenenti a Slow Food Coffee Coalition sono molte. I produttori aderiscono la rete Slow Food creando una comunità.
Ad esempio, nelle Filippine, stanno portando avanti la garanzia partecipata (PGS) in cui viene definito il modello di certificazione di un caffè buono, pulito e giusto insieme a produttori locali e altri stakeholders.
Sappiamo che non esistono certificazioni perfette, ma abbiamo scelto questa poiché è basata sulla fiducia delle comunità locali e non solo del produttore. È basata sul fatto che la ownership del tutto non è di Slow Food, che non certifica nulla, ma è della comunità ed è gratis.
Questa è una certificazione di secondo livello. Quelle di primo livello sono autocertificazioni. Quelle di terzo livello prevedono il pagamento verso un’altra organizzazione che certifica qualcosa.
La PGS è nata anni fa su richiesta dei contadini, non solo nel campo del caffè ma per tutti gli alimenti.
Tutti possono farne parte dietro la compilazione di alcuni documenti. Noi ci concentriamo ovviamente sulle comunità capendo cosa sia importante per loro. Siamo interessati a ciò che fa una determina comunità e il modo in cui produce il caffè in totale autonomia”.
Come è stato accolto dai produttori l’impegno di Slow Food per la valorizzazione della filiera del caffè?
“Abbiamo avuto ottimi feedback. Nelle Filippine continuano a portare avanti la garanzia partecipata. Ci sono dei trail di turismo responsabile in cui è possibile andare a visitare alcuni produzioni sostenibili, tra cui anche quelle del caffè.
Questo è stato possibile anche in India grazie alla Kingstone Foundation. Ad esempio, dei produttori delle Filippine, parte di Slow Food Coffee Coalition, e dei produttori dell’India sono stati invitati dalla rete dei popoli indigeni a Taiwan di recente. È un’occasione di condivisione e discussione.
Molti contadini di queste produzioni lavorano con noi. Nel Messico ci sono diverse comunità che collaborano con la nostra rete e stanno mettendo su uno spin-off di Slow Food Coffee Coalition messicana ancora in fase di elaborazione.
Ovviamente si tratta di un qualcosa che deve essere commercializzato. I produttori sanno che facendo questo percorso noi li aiutiamo a mettere in contatto con torrefazioni italiane ed europee e di facilitare il commercio.
La nostra è una filiera basata sulla fiducia. L’obiettivo principale è creare questo rapporto anche con il consumatore e che quest’ultimo possa comprare il caffè in base a criteri di gusto e sostenibilità creando un attaccamento al Paese d’origine”.
Su quali altri aspetti avete intenzione di focalizzarvi nel futuro? Quali sono i vostri obiettivi per i prossimi anni?
“Il nostro obiettivo è allargarci, incontrare sempre più torrefattori stranieri ed espandere la nostra rete.
Poi cercheremo di consolidare il legame con il consumatore. Ci saranno diversi eventi nel corso del 2024 per condividere la nostra realtà ai produttori e ai torrefattori interessati”.