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venerdì 22 Novembre 2024
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Lim Chocolate, Dutto: “Un cioccolato di qualità è complicato da riconoscere”

Dutto: "Da craft maker bean to bar cerchiamo di instaurare un rapporto di fiducia e collaborazione con i farmer: paghiamo care le fave di cacao, proprio per migliorare le condizioni di vita e professionali di chi lavora alle origini e allo stesso tempo ottenere un prodotto che sia della qualità più elevata possibile."

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MILANO – Lim Chocolate, less is more, è la creatura di Federico Dutto: nato per gioco e per passione. Da farmacista, dopo la laurea ha intrapreso un percorso che lo ha portato a diventare direttore commerciale marketing nell’ambito nutrizionale e alimentare.

Da sempre però, una fame imprenditoriale marcata e una curiosità spiccata, lo hanno portato a interessarsi al food più sostenibile. Dopo oltre 10 anni ha maturato la necessità di capire i motivi per cui si complicano spesso le cose dal punto di vista alimentare e la svolta
verso il settore del cioccolato e dei lievitati, scoprendo una filiera complessa e industrializzata.

Così, la formula del bean to bar degli USA, movimento nato negli States negli anni 2000 da un ex manager della Silicon Valley, lo ha conquistato subito. Anni di ricerca e di studio dal punto di vista chimico, sono sfociati in Lim Chocolate.

La prima tavoletta venduta risale all’ottobre 2020 e oggi, Lim Chocolate è in fase di ristrutturazione per trasferirsi in un locale ampio con un laboratorio di oltre 300metri quadri.

Tolto tutto il superfluo, restano in equilibrio gli elementi della cultura minimalista come ingredienti segreti del cioccolato Lim Chocolate

Dal punto di vista del lavoro compiuto in origine, ci sono modalità differenti che portano ad un risultato diverso della materia prima che poi arriva nelle mani di voi maestri trasformatori?

“Ci sono alcuni step fondamentali. Si parte ovviamente da un cacao che dal punto di vista genetico presenta caratteristiche organolettiche di un certo spessore, con un profilo sensoriale il più possibile variegato e ricco.

Poi però, sia il farmer che l’artigiano, devono riuscire a valorizzarlo. Il momento più importante nelle fasi di lavorazione all’origine è quella della fermentazione che può variare dai 4 ai 7 giorni: qui si sviluppano gli aromi e si potenzia il profilo del seme di cacao. Fondamentale anche l’essicazione volta ad eliminare un’umidità troppo marcata.

Ovviamente la fermentazione è un processo che va saputo gestire, perché se il prodotto importato è sovra fermentato può trovare uno sbocco soltanto sul commercio industriale.

Da craft maker bean to bar cerchiamo di instaurare un rapporto di fiducia e collaborazione con i farmer: paghiamo care le fave di cacao, proprio per migliorare le condizioni di vita e professionali di chi lavora alle origini e allo stesso tempo ottenere un prodotto che sia della qualità più elevata possibile.

Con questo obiettivo incentiviamo la formazione per i coltivatori e forniamo alle cooperative attrezzature più avanzate.“

Come si scelgono le fave migliori?

“Ora il mio brand è abbastanza conosciuto per i premi che ho ricevuto e quindi attualmente sono diversi i partner mi contattano.

Ma essenzialmente faccio un grande lavoro di scouting, studiando le origini, la genetica, assaggiando i campioni. Prima di selezionare una fava provo una decina di profili differenti per capire quante potenzialità ha il campione.

In fase di lavorazione (foto concessa)

Se sono convinto, allora parte la collaborazione. Da un sacco di qualche chilo, già dalla dimensione della fava e dalla sua sezione ci si accorge se è avvenuto tutto correttamente in fase di produzione.

Essendo poi anche sommelier del cioccolato, proprio nell’assaggio della materia prima colgo alcuni aspetti, come la tipologia del profilo aromatico, se è più fruttata, floreale, legnosa, così da poter creare dei profili più adatti.”

Parliamo invece della tostatura: come si cuociono le fave?

“Applico una tostatura con le sinusoidi di temperatura e non utilizzo die profili troppo spinti. Se dovessimo identificare un range, si passa dai 100 ai 145 gradi. Certo poi ogni batch è un mondo a parte.

Con delle fave molto piccole sarà necessario prestare maggiore attenzione. Si deve sviluppare una sensibilità olfattiva e al palato molto spiccate, ma è una competenza che il maestro cioccolatiere deve possedere, insieme alla pazienza.

Molti ad esempio sottovalutano il momento in cui inserire lo zucchero, che però determina totalmente la riuscita del cioccolato. Il mio prodotto è conosciuto in quanto spigoloso, con delle note aromatiche molto marcate: ma è così che voglio che sia. Anche per sviluppare un profilo così netto, ho dovuto fare tantissime prove.

Mediamente una tostata può durare dai 15 minuti ai 40 minuti, ma è molto soggettivo.

Va bene rispettare la materia prima, ma cuocerla non è altro che la sua valorizzazione.

Per quanto riguarda il mio prodotto, parlare di un cioccolato crudo non è esatto: tutte le fave utilizzate da me in laboratorio sono fermentate e già questo fenomeno è una fase in cui il cacao subisce un aumento della temperatura (che nelle vasche arriva già ai 60 gradi).”

La cascara che viene rimossa, ha un possibile riutilizzo come avviene per esempio con il caffè che viene utilizzata per degli infusi?

“Si può riutilizzare anche in questo caso. Ne realizzo poca per darla all’industria e anche ai coffee shop di specialty, sotto richiesta. La uso poi come fertilizzante e nutrimento per il pollame.

Attualmente sto studiando un progetto per un recupero maggiore.”

La raffinazione: perché le fave vengono macinate a pietra e per quanti giorni con lo zucchero di canna (perché di canna e quanto ce ne vuole?)

“Zucchero di canna e non bianco come dicono molti perché, quello che uso grezzo e biologico mi piace in quanto non è estremamente dolce e ha un potere insulinico più basso. Questa fase può durare tra i 3 e i 5 giorni ininterrotti per batch e dipende tutto dall’origine lavorata.”

Lei non applica il concaggio?

All’ingresso di Lim Chocolate (foto concessa)

“Durante la macinazione dei mulini a pietra si ha già un primo concaggio, che di base è un’operazione industriale che si appoggia su di un macchinario – un cilindro chiuso con un supporto meccanico esterno che riscalda e scuote il cioccolato -: così il profilo aromatico vola via.

Con una tostatura e un concaggio elevato, i difetti vanno via, ma anche le poche caratteristiche interessanti potrebbero scomparire.

Fatte queste considerazioni, va da sé che per me sarebbe soltanto dannoso applicare un secondo concaggio: l’acido acetico si elimina con la tostatura corretta e con una raffinazione lenta nel tempo, che allo stesso tempo permette di non ammazzare il profilo aromatico.”

Quanto è importante per il risultato finale la fase di aging?

“Dipende sempre dallo stile del chocolate maker: per me è importante e la estendo sino ai 40 giorni. Fare aging significa ridurre le quantità prodotte e quindi vendo pochissime tavolette, distribuisco più massa per le pasticcerie.”

Come sviluppa il temperaggio?

“Tempero semplicemente come ho imparato, con innesto e con la temperatrice. Dopo l’aging il temperaggio permette di stabilizzare il burro di cacao e di creare una distribuzione delle molecole del burro di cacao in modo da intrappolarne gli aromi all’interno del reticolo.

Così non si ha più un invecchiamento rapido: il cioccolato resta vivo a lungo, con un processo di maturazione più lento. Le regole sono semplici: si alza la temperatura del cioccolato per portare al completo scioglimento del burro cacao nei cristalli, poi con
uno shock termico meccanico si riporta al V stadio, il più stabile, che conferisce l’effetto lucido e di croccantezza.

Temperare spatolando si può fare soltanto con piccolissime quantità e si aumentano le
possibilità di errore.”

Come riconoscere, per un consumatore finale non esperto, un cioccolato di qualità?

“Un cioccolato di qualità è complicato da riconoscere. Anche il termine bean to bar viene ormai usato dalla grande industria e quindi è inflazionato. Bisognerebbe fare più cultura: a me piace e provo ad insegnare alle mie figlie a chiedersi sempre cosa c’è dietro il prodotto, per capire da dove arriva.

Significa cercare la trasparenza e dare l’opportunità di fare scelte consapevoli. Automaticamente si passa al livello successivo: capire cosa piace e cosa no.

Una volta che si sa la differenza tra il cioccolato industriale e quello artigianale, ci si rende conto che a parità di ingredienti (cioccolato e zucchero di canna) si vivono esperienze differenti e così si raggiunge un primo traguardo.

Da lì in avanti si sceglie sulla base di ciò che si conosce, non in base all’impulso condizionato dal marketing.

Il concetto di qualità poi è una parentesi a parte: chiunque produce qualcosa si fregerà del fatto che è di qualità.

Ma cosa significa? Io ho identificato 9 punti che secondo me determinano un concetto più ampio di qualità, che diventa sinonimo di valore per tutti e per il mondo che ci circonda. Produco cioccolato, ma attraverso questo genero valore e quindi, qualità.

E le persone devono capire che tutto questo ha un costo: vendo le tavolette a 6 euro e i clienti, seppur apprezzino il prodotto, si lamentano comunque del prezzo troppo elevato.”

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