Riportiamo di seguito l’intervento integrale che Maurizio Giuli, executive for corporate strategy Simonelli Group, attuale vice presidente dell’Ucimac – l’associazione dei costruttori italiani delle macchine per l’espresso – ha tenuto al convegno Trieste Coffee Experts di Bazzara a Trieste. Tema centrale dell’analisi di Giuli, chiamata “Innovare per sostenere“, è la sostenibilità nella filiera del caffè. Leggiamo di seguito le sue considerazioni.
L’analisi di Maurizio Giuli sulla sostenibilità presentata al Trieste Coffee Experts
TRIESTE – “La presente analisi è ricavata dalla relazione fatta al Trieste Coffee Experts organizzata da Bazzara. Il titolo assegnato a questa relazione è “Innovare per sostenere”. Sono due parole molto usate in questi ultimi anni, a volte persino abusate, per cui risulta difficile non cadere nella banalità. Tutti parlano di innovazione, ma ancora di più di sostenibilità.
Se pesassimo tutto quello che viene dichiarato in tema di sostenibilità e se questo valore corrispondesse alla realtà avremmo già un mondo pulito e con una buona equità sociale; non saremmo ancora nel mondo perfetto ma vicini.
Di fronte al tema sostenibilità avverto due generi di approccio: c’è chi lo vive in modo quasi ansioso come un problema e per questo si sente in obbligo di agire velocemente per tentare di contenere e chi invece assume un atteggiamento più distaccato e più conservativo, della serie, “tanto è un problema così grande e sproporzionato che qualsiasi cosa io faccia avrebbe poca rilevanza”.
Il messaggio implicito di sottofondo è: tanto vale che non faccia nulla. Sorvoliamo sui negazionisti che non meritano di essere considerati.
Secondo questo recente grafico di Visual Capitalist nel 2021 sono state emesse 34 miliardi e mezzo di tonnellate di CO2 e tre paesi da soli sono responsabili per oltre la metà di tutte le emissioni.
Noi italiani contribuiamo solo per lo 0,9% e quindi secondo la logica descritta sopra qualcuno potrebbe affermare che prima di noi dovrebbero iniziare i top tre”.
Giuli continua: “Stessa cosa se ci spostiamo dai paesi ai settori. Nel grafico sotto vediamo il contributo dei vari comparti dell’economia alle emissioni di carbonio. L’energia ed i trasporti la fanno da padroni e quindi ancora una volta saremmo tentati di ritenere che prima di agire noi della filiera del caffè, sono altri a doversi muovere.
Il caffè è innanzitutto un prodotto agricolo ed il settore agricolo nel suo complesso è responsabile del 26% delle emissioni di CO2. Come mostrato dai due grafici sotto, il caffè è uno fra i prodotti agricoli a maggiore impatto ambientale.
Secondo il whitepaper “Carbon and Coffee” di SCA il settore del caffè sarà responsabile dell’emissione da 1,65 a 3,3 gigatons di carbonio entro il 2050.
Allora forse qualcosa dovremmo farla anche noi. Un mese e mezzo fa è uscita la notizia riportata sotto e capiamo che forse le cose non stanno proprio come ce le stiamo raccontando”.
Se non acceleriamo il passo ci vorranno 200 anni per raggiungere gli obiettivi che ci siamo posti sul cambiamento climatico e che delineano la condizione base per garantire un futuro alle prossime generazioni.
Giuli si spinge oltre: “La concentrazione atmosferica di anidride carbonica è ora di quasi 415 parti per milione (ppm), rispetto alle 280 ppm circa di prima della rivoluzione industriale. Di conseguenza, la Terra si sta riscaldando più velocemente.
Anzi, la situazione sta continuando a peggiorare e il 2023 è già l’anno più caldo di sempre; siamo già oltre quel fatidico obiettivo del +1,5°C stabilito negli accordi di Parigi.
Dal seguente grafico, ricavato da Copernicus, vediamo come si stanno muovendo le temperature nel corso dei mesi dell’anno”.
Giuli precisa: “Notiamo che fino al 1980 la situazione era abbastanza stabile, negli anni ’80 e ’90 abbiamo alternato temperature normali con temperature superiori alla media, ma dal 2000 si è innescata un’accelerazione che come è evidente dalla cromia dei vari mesi sembra inarrestabile.
Il tema climatico è talmente pressante che lo stesso World Economic Forum nel report dello scorso gennaio parla di “Tomorrow’s Catastrophes” relativamente ai temi ambientali.
Le prime tre fra le principali sfide che le istituzioni economiche mondiali dovranno affrontare nei prossimi anni riguardano i temi climatici e ben sei fra i top dieci rischi sono afferibili al cambiamento climatico.
La loro importanza è ancora più evidente nella mappa seguente, in cui i temi relativi “all’incapacità a mitigare gli effetti climatici”, “all’incapacità ad adattarsi ai cambiamenti climatici” e “agli effetti avversi del clima” sono tutti posizionati nel quadrante alto a destra, quello con maggiori effetti sia nel breve che nel lungo termine”.
Giuli: “Che ci piaccia o no è tempo di agire seriamente. Mettiamo allora in sottofondo il chiasso comunicativo per andare a vedere come stanno davvero le cose.
Se vogliamo che il caffè diventi più sostenibile, dobbiamo innanzitutto capire come e dove vengono emessi i gas serra lungo le varie fasi del suo ciclo produttivo. Dobbiamo cioè avere una misura, perché altrimenti non riusciamo a valutare gli effetti delle nostre azioni e dei nostri sforzi.
Da un po’ di tempo abbiamo tutti iniziato a familiarizzare con il concetto del LCA (Life Cycle Analysi) che, per quanto imprecisa sia, è comunque la misura più proxy per valutare l’impatto ambientale di un prodotto o di un’azienda.
Il problema è che calcolare l’LCA è particolarmente complesso e lo è ancor di più quando si fa riferimento ai prodotti agricoli come evidenzia questo studio del 2017.
Qualsiasi studio LCA si basa su delle assunzioni e delle stime che occorre conoscere per avere una corretta interpretazione dei dati, altrimenti si rischia di giungere a delle conclusioni fuorvianti.
Al fine di fornire un quadro quanto più esaustivo possibile dell’impronta generata da un kg di caffè o da una tazzina di caffè e di quali sono i principali fattori che la determinano vi riporto una rassegna dei principali studi pubblicati sull’LCA del caffè.
Partiamo da questo studio del 2006 di Coltro et al., molto citato in letteratura, in cui si cerca di quantificare i fattori che generano un impatto ambientale nella produzione di una tonnellata di caffè verde in Brasile.
In questa chart sono stati rapportati i valori relativi ad un chilogrammo di caffè per il quale vengono consumati 11,4 Kg di acqua, 0,09 Kg di gasolio, 0,9 Kg di fertilizzanti, 0,01 Kg di pesticidi e per produrre una tonnellata viene consumata una superficie di 0,05 ha.
Nel 2009 uno studio condotto da S. Humbert, Y. Loerincik, V. Rossi, M. Margni, O. Jolliet, fa un confronto LCA fra il caffè solubile e altri sistemi di estrazione, in particolare caffè filtro e espresso in capsule, da cui emerge che il caffè solubile con sistema spay-dry (con un’impronta di 0,07 Kg CO2 eq) risulta essere quello meno impattante perché richiede minore energia e usa una minore quantità di caffè verde rispetto al caffè filtro e alla capsula”.
Giuli continua: “Nel 2011 viene pubblicato un altro studio molto citato in letteratura, condotto da E. Brommer et al. che calcola il contributo in termini di impatto ambientale delle varie fasi della catena del caffè consumato in Germania da cui emerge che il 55,4% delle emissioni deriva dai processi di farming e di lavorazione, l’1,9% dallo shipment, il 6,6% dal roasting e packaging ed il 36% dal consumption e post-consumption.
In questo studio viene fatta anche una comparazione fra i diversi sistemi di estrazione da cui emerge che i meno impattanti sono il French Press e il Filter Drip machine, per poi salire con le Fully Automatic coffee, mentre il sistema con impronta maggiore è costituito dalla macchina a capsule.
Nel 2012 esce un interessante studio sulle piantagioni in Costa Rica in cui si cerca di verificare l’impatto in termini assoluti e percentuali delle varie fasi della catena del caffè.
Secondo tale studio ogni chilogrammo di caffè consumato genera un’impronta ambientale pari a 4,98 Kg CO2-eq, di cui il 38% avviene nelle attività svolte nel paese di origine ed il 62% in quelle del paese di consumo.
Nel 2014 uno studio giapponese realizzato da Hassard et al. fa un confronto della carbon footprint energetica fra diverse tipologie di bevande caffè, incluso il caffè in lattina, da cui emerge che una dose di espresso ha un impatto di 49g di CO2eq contro i 223g di una lattina”.
Giuli spiega: “Se però si calcola l’impatto per ogni mL di bevanda la situazione si ribalta: l’impronta di un mL di espresso è pari a 1,62gr CO2-eq contro 1,17gr CO2-eq per lo stesso volume in lattina.
Nel 2015 Quantis pubblica uno studio commissionato dal Packaging Consortium (Markhan, Ontario, Canada) in cui viene comparata la carbon footprint di una tazza di caffè filtro realizzato con il sistema single serve e di una tazza col sistema “bulk coffee brewing”.
Il risultato è che il sistema porzionato ha un minore impatto rispetto al drip coffee perché in questo caso viene previsto un doppio fattore scarto di caffè dovuto a: a) over-production nel senso che si prevede che il consumatore prepari normalmente più caffè del necessario per evitare carenze e b) problemi di freschezza, ovvero si suppone che il consumatore tenda a smaltire una certa quantità di caffè a causa della perdita di freschezza dei chicchi. Nel caso delle capsule queste due forme di spreco non sono contemplate.
Nel 2017 un altro studio effettua un confronto fra tre diversi sistemi di caffè: il drip filter, il French Press e Pod style, da cui emerge che il sistema drip filter è quello con maggior impatto ambientale, mentre il french press risulta essere il sistema più virtuoso.
Il Pod coffee si posiziona fra i due. E’ interessante la conclusione riportata, ovvero che le due principali cause dell’impatto ambientale sono: la dose di caffè utilizzata e l’energia necessaria per estrarre il caffè.
A settembre 2017 viene realizzata una pubblicazione da parte dello stato dell’Oregon ed in collaborazione con l’università del Michigan in cui vengono riportati i risultati di nove precedenti studi LCA tentando di fare una sintesi fra i vari sistemi di bevande.
Da questo studio emerge che il caffè solubile è quello a minore impatto ambientale seguito a breve distanza dal caffè espresso soprattutto per la minore dose di caffè consumata e per il minor fabbisogno energetico.
I sistemi French press, one cup filter, il drip filter sono tutti più impattanti. C’è un salto di impatto nel caso del caffè in lattina e del latte (espresso + latte)”.
Giuli chiarisce: “Nel 2019 viene pubblicato uno studio realizzato dal tailandese Phrommarat che intende quantificare gli indicatori dell’impatto ambientale relativi a tre diversi sistemi di estrazione: il Drip maker, il sistema Moka ed il Pour-over.
In tutti e tre i sistemi viene utilizzata la dose di 13,5g di caffè Arabica per ottenere una bevanda di 150 mL. Secondo tale studio il sistema più impattante risulta essere la moka soprattutto per un maggior fabbisogno energetico in fase di estrazione.
A gennaio 2020 viene pubblicato un controverso studio realizzato da Tavares-Mourad che intende calcolare l’impatto ambientale di diversi sistemi di estrazione del caffè: in particolare il caffè espresso in un coffee shop che produce 2,7kg di caffè al giorno, l’aeropress, il french press, il V60, il caffè filtro, sia a casa che nel coffee shop, e due diversi tipi di capsula (Capsula 1 e 2).
Negli istogrammi e nella tabella sotto sono riportati i valori. Il sistema a Capsula 2 risulta essere il sistema più impattante con 35,63 gCO2eq, seguito dall’espresso, con 31,21gCO2eq e poi dalla capsula 1 sempre da espresso, con un impatto di 26,6 gCO2eq. Un lettore distratto, o semplicemente con scarse competenze tecniche sul caffè, sarebbe portato ad avvalorare questi dati e quindi a sostenere che l’impatto della capsula 1 (in alluminio lasciando intendere che è prodotta in Svizzera)[1], sia di gran lunga inferiore a quella di un espresso al bar (-15%).
Andando ad analizzare meglio la metodologia della ricerca si nota però che, dopo aver citato le indicazioni del libro Illy 1995 secondo cui per un espresso occorrono 6,5 gr più o meno 1.5 gr, nello studio per l’espresso sono stati considerati 12 gr di polvere di caffè, senza darne motivo (a parte un generico riferimento di visite ad alcuni coffee shops e bakeries nelle città di Campinas e São Paulo), contro i 5,1 gr della capsula 1. Ora vi chiedo quanti di voi fa un espresso con 12 gr per dose?”.
[1] The energy consumption for the capsule espresso coffee method of 1.8 MJ/cup of 100 mL in Switzerland (Humbert et al. 2009), which is similar to capsule 1 of this study (0.32 MJ/50 mL), is higher than the present study.
Giuli nota: “La differenza nella dose la si riscontra anche a livello di Brix: il caffè espresso presenta un valore di 6,5 a fronte del 3,7 della Capsula 1 (in alluminio). Cioè in pratica si stanno confrontando bevande sostanzialmente diverse dal momento che nel caso dell’espresso non corrisponde alla normale prassi del mercato.
Dal momento che la quantità di polvere di caffè è uno dei principali fattori dell’impatto ambientale è chiaro che prevedere per l’espresso al bar l’uso di un quantitativo ben 2,3 volte superiore rispetto a quello della capsula 1 e comunque distante da ogni prassi può avere due significati: o c’è una profonda incompetenza da parte di chi ha condotto lo studio o semplicemente si è voluto dirottare la ricerca verso un determinato obiettivo. Lascio a voi fare le dovute considerazioni.
Secondo uno studio italiano presentato ad un convegno scientifico nel febbraio 2020, una tazzina di caffè espresso al bar ha un impatto pari a 21,23 grCO2eq.
Sempre nello stesso anno viene pubblicato un interessante studio inglese in cui vengono paragonati gli impatti di 1Kg di Arabica importato dal Brasile e dal Vietnam ottenuto sia con il sistema convenzionale e sia con un sistema eco-sostenibile”.
Da questo studio emerge che in media 1kg di caffè ha un impatto di 15,33Kg CO2, che secondo lo standard PAS 2050 (Publicly Available Specification) è ad intensità molto elevata, poiché ha un rapporto delle emissioni superiore a 5[2].
Secondo questo studio la differenza di impatto fra i due Paesi di origine è principalmente associata alla logistica per le diverse distanze; il caffè vietnamita ha un impatto più alto di quello brasiliano.
Giuli osserva: “L’aspetto forse più interessante di questa analisi è che applicando soluzioni sostenibili lungo tutta la filiera si può abbattere l’impatto anche del 77% passando da 15,33 Kg CO2eq a 3,51 Kg CO2eq per ogni chilogrammo di caffè Arabica.
[2]PAS 2050 classifica le emissioni superiori a 5 kg di CO2e Kg–1 come “intensità molto elevata”, mentre quelli compresi tra 0,1 e 1,0 kg di CO2e Kg–1 sono classificati come “di media intensità”
Nel caso del caffè brasiliano si riuscirebbe a scendere da 14,61 Kg CO2eq a 3,37 Kg CO2eq, mentre nel caso del caffè vietnamita si passerebbe da 16,04 Kg CO2eq a 3,64 Kg CO2eq.
Sempre nello stesso anno uno studio finlandese calcola l’impronta ambientale del caffè consumato in Finlandia sulla base delle varie origini.
Da esso emerge che il carbon footprint varia da 0,27 a 0,70 Kg CO2eq/per lt di caffè a seconda del paese d’origine e della produttività della piantagione.
A livello generale i processi di farming e processing sarebbero responsabili del 68% delle emissioni, seguiti dal brewing che incide per l’11% e dal trasporto, tostatura e packaging che nel complesso incidono per il 4%.
Uno studio italiano realizzato da Cibelli e altri confronta la moka con il sistema a cialda e a capsula da cui emerge che la moka a induzione risulta essere il sistema meno impattante, seguito dalle capsule e dalle cialde.
Sempre gli stessi autori nel 2021 hanno pubblicato un altro studio in cui si confronta l’impronta ambientale del consumo domestico di una tazza di caffè da 40mL ricavata con vari sistemi, fra cui moka tradizionale, moka a induzione, macchina da caffè espresso, sistema a cialda e sistema a capsula. Ancora una volta la moka ad induzione risulta la più ecologica, mentre l’espresso e la cialda ESE risultano essere i meno ecologici”.
Giuli continua: “Nel gennaio 2023 viene data ampia copertura mediatica (fra cui Washinghton Post e BBC) ad uno studio condotto dall’Università del Quebec in Canada dal titolo le capsule sono più ecologiche del sistema filtro tradizionale. Questo studio prende a riferimento un classico caffè filtro da 280 mL realizzato con quattro diversi sistemi di estrazione: sistema tradizionale, French Press, Solubile e Capsula. Ancora una volta i dati sono a favore delle capsule. Da notare che anche in questo caso per il sistema filtro tradizionale vengono previsti 25gr in per 280 mL out di bevanda contro i 14gr per le capsule a parità di output.
Arriviamo ai giorni nostri. Qualche settimana fa è stata pubblicata una ricerca dell’Università olandese di Wageningen finalizzata a calcolare gli impatti ambientali e la circolarità dei diversi materiali con cui si fabbricano le capsule di caffè monodose. Da essa emerge che, se si considerano sia la circolarità dei materiali sia le emissioni di gas serra per la produzione, le capsule compostabili rappresentano l’opzione più sostenibile.
La circolarità è stata quantificata con il MCI (Material Circularity Indicator), uno strumento sviluppato dalla Ellen MacArthur Foundation. Questo indicatore è fra i più completi disponibili: comprende tassi di riciclo, contenuto riciclato, resa del processo di riciclo, contenuto di origine biologica, riutilizzabilità e durata media della vita.
Il MCI delle capsule compostabili ha un valore del 100% (completamente circolare) laddove vengono realmente compostate, contro un valore del 60% per le capsule in alluminio se correttamente sottoposte a raccolta selettiva. Anche nel caso in cui le capsule siano prodotte utilizzando alluminio riciclato, un sistema chiuso di riciclo non è possibile raggiungerlo. Nel caso delle capsule in plastica i valori di circolarità sono ancora più bassi (inferiori al 50%)”.
Giuli: “Cosa possiamo ricavare da questa lunga rassegna?”
“Innanzitutto emerge la grande difficoltà nel calcolare l’impronta ambientale del caffè. Tanti sono i fattori che condizionano i risultati e come è emerso a volte i vari studi giungono a conclusioni del tutto discordanti: lo stesso sistema di estrazione risulta il più virtuoso in alcune ricerche ed il più inquinante in altre. Tutto ciò rende difficile, se non impossibile, per un osservatore ricavare una sintesi attendibile della situazione. In questo contesto è anche facile orientare i risultati a seconda degli scopi, per cui occorre prestare molta attenzione alla metodologia utilizzata ed ai parametri presi a riferimento dallo studio più che ai valori finali.
Tutto ciò non deve però costituire un alibi per non agire e per non mettere in campo misure capaci di attenuare l’impatto ambientale.
Anche perché il caffè non è solo uno dei fattori che genera impatto ambientale, ma è soprattutto la prima vittima dei cambiamenti climatici: secondo diverse fonti il 70% delle attuali aree di coltivazione non saranno più tali entro il 2050 per le variazioni climatiche”.
Giuli sottolinea: “Nell’analisi di due anni fa sul futuro del mercato del caffè, emergeva in modo chiaro che c’erano buone prospettive sul fronte della domanda di caffè, mentre sul lato dell’offerta il quadro era più cupo per una serie di problematiche legate sia a ragioni socio-economiche dei farmers e sia a ragioni ambientali, in quanto l’attuale sistema di business non è in grado di reggere i ritmi di crescita del consumo del caffè a livello globale”.
C’è di più: “Dobbiamo quindi impegnarci seriamente se vogliamo garantirci un futuro e ciò richiede un grande sforzo di innovazione, perché la vera sfida è rendere compatibile l’obiettivo della sostenibilità con quello del business.
Secondo varie ricerche, anche recenti, allo stato attuale la maggior parte dei consumatori non sembra ancora pronta (nei fatti e non nelle dichiarazioni) a spendere di più per avere un prodotto più sostenibile. Compito delle aziende della filiera è quindi quello di cercare soluzioni capaci di conciliare i due aspetti.
Dalle ricerche esaminate emergono tre direttrici verso cui le aziende dovranno muoversi per abbattere l’impronta ambientale:
1) Efficientamento energetico: sviluppando e adottando soluzioni tecnologiche meno energivore lungo tutta la filiera, ma soprattutto in fase di consumo. Noi di Simonelli Group dal 2009 monitoriamo l’impatto LCA delle macchine per caffè espresso da cui emerge che i consumi energetici della fase d’uso rappresenta oltre il 98% della carbon footprint prodotta nel corso dell’intero ciclo di vita del prodotto in tutti gli scenari presi in considerazione (mix bevande di un coffee shop italiano e di un coffee shop internazionale a tre diversi livelli di intensità). Per chi fosse interessato ad avere maggiori dettagli sull’impronta ambientale dei nostri prodotti è possibile consultare il nostro report integrato di sostenibilità all’interno del quale abbiamo pubblicato tutti i valori.
Se le nostre macchine più recenti garantiscono un risparmio energetico effettivo del 37% a parità di prestazioni è perché già nel 2007 avevamo avviato dei progetti di ricerca con l’Univ. Poitecnica delle Marche per trovare soluzioni di efficientamento della macchina da caffè, come è possibile notare da questa vecchia slide.
Sempre sul fronte energetico da segnalare anche la diffusione delle bevande fredde, come il cold brew, che richiede minore energia e che sposa anche i gusti delle giovani generazioni.
2) Efficientamento dell’estrazione: un dato comune a tutte le ricerche riportate è il peso dell’impronta ambientale del caffè nelle fasi di coltivazione, raccolta e lavorazione, che in linea di massima è responsabile per circa il 50-60% dell’impronta di una tazzina di caffè. E’ chiaro quindi che abbassando la dose di macinato per produrre le stesse bevande attraverso un migliore efficientamento dell’estrazione si riduce l’impronta ambientale e si pongono anche i presupposti per sostenere i futuri ritmi di crescita della domanda. Capisco che questo tema potrebbe non piacere a chi fa business vendendo caffè, ma questa sarà una delle direzioni verso cui si muoverà la futura innovazione.
3) Coltivazioni più ecosostenibili: sul fronte agricolo l’intensivo uso di pesticidi e fertilizzanti costituisce il principale fattore di emissione. Incentivare e privilegiare colture più ecosostenibili e preferire in fase di acquisto caffè che rispettano i canoni socio-ambientali costituiscono la pre-condizione per avviare un percorso virtuoso che poi il marketing dovrà valorizzare adeguatamente per trasmetterlo al consumatore finale rendendolo partecipe di questo percorso.
Si deve tuttavia fare attenzione ad evitare qualsiasi azione che possa apparire di greenwashing o di cause-related marketing, perché produrrebbe l’effetto opposto sul consumatore, aumentando la sua diffidenza nei confronti dell’industria”.
Maurizio Giuli conclude: “In altri termini occorre spostare l’enfasi dallo storytelling allo storydoing”.
Referenze
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