MILANO – Il tè da scoprire con la pratica, in compagnia ancora una volta (la prima è stata qui) dell’esperta Elisa Moratello, fondatrice di Teatips, per il secondo livello del corso “Come riconoscere un buon tè”, organizzato insieme a Mumac Academy di Cimbali Group. Appassionati, astemi da caffè, naturopati, curiosi, professionisti del chicco, tutti collegati online per acquisire un metodo per approcciarsi a questa materia più consapevolmente.
Tra le mani dei corsisti, 4 tè: un oolong, un verde, un nero e uno non classificato.
Teatips: obiettivo, diventare dei mini tea taster
In appena due ore e mezza, come sarà possibile?
Il primo step è l’esser muniti di un set da cupping: il kit arrivato nelle case dei corsisti è dotato di una cup con coperchio e seghetta sul bordo.
Questo è lo strumento che permette di infondere il tè: quando è il momento, si dovrà versare il contenuto in una seconda ciotola, capovolgendo la cup, incastrandola nella ciotola, dove farà colare il liquore attraverso i dentini – per i primi tentativi, il consiglio è quello di tenere lontano e al sicuro oggetti elettronici -.
La parte aromatica potrà esser apprezzata nella cup, mentre il liquore nell’altro contenitore. Nell’analisi, è sufficiente valutare tre parametri: l’aspetto delle foglie, l’aroma, il sapore e la modalità di lavorazione per individuare pregi e difetti.
Ma che cosa influisce davvero sulla qualità di questi elementi?
La cultivar (la varietà botanica della pianta che, quando indicata, può aiutare a comprendere meglio la tracciabilità), la varietà e il terroir.
Per esempio, ad Alishan, in Taiwan, le piante del tè crescono spesso in alta montagna, con una resa molto diversa da quelle dell’India e dell’Africa che crescono nelle coltivazioni pianeggianti, a contatto con la luce diretta che fa accumulare meno clorofilla nella pianta ma fa sviluppare anche più polifenoli, con un risultato tendente all’amarognolo e all’astringente.
Oltre al fattore ambientale, entra in gioco la lavorazione delle foglie: l’aspetto è determinato dal produttore stesso, che decide di attribuire una forma specifica.
Da un buon tè in foglia generalmente ci si aspetta di trovare una grandezza uniforme, dei colori omogenei e accesi, pochi rametti.
Al contrario, in un tè cattivo si troveranno foglie arrossate, strappate o bucate (per via di una lavorazione svolta con una forte umidità o non controllata), molti rametti, polvere. Infine, se il tè è stato conservato in maniera scorretta, a volte si presenta più spento.
L’altitudine è un altro elemento che impatta molto, anche a causa del sole che raggiunge o meno le colture. Il tè verde Gyokuro ad esempio, si sviluppa all’ombra, e risulta così molto più dolce.
La pratica: bagnate le foglie e liberate dal liquido, si procede all’analisi
Dal kit inviato per il corso, si parte dal primo tè: un oolong taiwanese, il Baozhong. Pesati due grammi in 200ml d’acqua a 90 gradi per 2 minuti.
Si apre quindi la tazza, si versano le foglie bagnate sul coperchio ribaltato in modo da poter osservare le foglie, ora idratate e aperte.
Il colore si è intensificato da un verde smeraldo ad una tonalità più mimetica. In questo caso è possibile individuare dei dettagli interessanti, come le tracce di rosso sui bordi, caratteristica molto diffusa nei tè Oolong: questo è dovuto alla lavorazione che prevede una fase di rolling, la stessa che determina l’aromaticità fruttata-floreale e conferisce il rosso alle foglie.
Anche il tossing, lo scuotimento, distribuisce l’umidità all’interno della foglia e come risultato, il suo bordo si arrossa.
Segue l’assaggio con cucchiaio alla mano, introducendo l’aria per percepire nitidamente gli aromi del liquore del tè. In uno buono, la complessità armonica, sia aromatica che cromatica, è positiva. Anche la morbidezza delle foglie, è indice di una buona conservazione.
Per dare più contesto: Taiwan è un’isola molto ricca di tè di altissima qualità, ed è la casa di più di 26mila farm in cui si produce tè bianco, tè verde, oolong e nero. Gli stessi cinesi portano il proprio Pu-erh dallo Yunnan e lo stoccano a Taiwan proprio per approfittare della qualità dell’aria, qui più pulita.
Il focus sull’aroma: note fruttate, floreali, vegetali, dolci (da non confondere con i sapori)
Si passa all’Hojicha Asamiya Oyako, un tè verde che però si presenta alla vista marrone perché tostato (processo che determina anche la sua aromaticità e lo rende molto indicato per l’autunno-inverno). Viene ricavato dalle foglie (bancha) più grandi del tè, che si trovano nella parte più bassa della pianta, e sono quindi meno cariche di caffeina.
Questo lo rende anche molto amichevole rispetto alle temperature e si presta ad un’acqua che varia tra gli 85 e i 90 gradi.
Alla vista le sue foglie si presentano quasi frammentate – nei tè giapponesi esiste una fase di cottura per bloccare l’ossidazione, fatta a vapore – e con dei rametti: l’Hojicha in alcuni casi può trovarsi anche con questi elementi presenti.
Questo perché nascono dalla pianta matura del tè e derivano un po’ dalla rimanenza della foglia della pianta dopo la selezione per i tè verdi di livello più alto come il Sencha o il Gyokuro (non come quello che si trova in bustina in polvere).
Gli steli delle foglie e di quelle più grandi, trovano una nuova vita per i tè con basso livello di caffeina più adatti al consumo quotidiano, ad esempio nei menù dei ristoranti giapponesi, abbinati magari ai pasti (anche eventualmente per sgrassare dei piatti piuttosto pesanti).
Alla luce di questo, non viene fatta una selezione delle foglie così puntigliosa.
La tostatura invece, conferisce caratteristiche particolari a livello olfattivo e gustativo.
Infine, l’Hojicha esiste anche in versione polverizzata e viene utilizzato molto per la preparazione di ricette.
Saper individuare l’aroma è tanto importante quanto non così scontato e va a braccetto con l’aspetto delle foglie
Nel tè vogliamo che l’aroma sia presente in maniera armonica ed evidente, in modo che non suggerisca sentori negativi come plastica, cenere carta, o prodotti chimici.
Un punto che fa discutere è l’aroma di umidità: alcuni tè fermentati in realtà hanno una caratteristica che ricorda il sottobosco, ma non è esattamente di muffa. Quando vira verso il fungo, allora deriva dall’eccessiva presenza di umidità.
Gli altri aromi che esistono si incasellano sotto le categorie di vegetali, fruttati, floreali, nutty, dolce, speziato, empireumatico.
Gli aromi si possono annusare direttamente portando le foglie al naso, in un momento che preannuncia l’esperienza gustativa.
Oppure, si possono percepire attraverso un canale retro olfattivo, all’interno della bocca.
Gradazioni delle foglie per attribuire la qualità
Esistono diverse sigle che vengono utilizzate nella produzione dei tè neri e anche dei tè oolong: ci troviamo in una zona molto specifica, India, Sri Lanka e Africa, ovvero il contesto definibile come ex colonia britannica. In Cina ad esempio, le foglie non vengono valutate in questa maniera.
Questa indicazione è un riferimento all’aspetto, all’interezza, alla quantità di gemme, al livello di aromaticità. Quella che è quasi sempre presente è la Orange Pekoe (OP) per valutare la foglia intera. Poi c’è Tippy (T), per il tè ricco di gemme. Golden (G) è per i tè neri ed indica ulteriormente un grado ancora maggiore di gemme.
Flowery (F), segnala la foglia grande. Fannings o Dust e Broken, è la sigla presente per le foglie spezzettate come quelli che si trovano nei tè neri in bustina. Della stessa categoria fanno parte anche Dust and Fannings, per individuare i tè composti dagli scarti dalla lavorazione, quindi ridotti in polvere.
Finest e Super Finest, determinano un livello qualitativo maggiore. CTC, Cut, Tear, Curl, valuta il grado delle foglie lavorate dall’omonimo macchinario, che le taglia, le strappate e le arriccia, di solito usato per la produzione industriale e intensiva.
L’assaggio del Black Lotus, dal Vietnam
Il focus si sposta quindi sul sapore e sull’aroma del liquore, con l’analisi di un tè nero profumato ai fiori di loto (durante la lavorazione, le foglie raccolte, appassite, arrotolate, sono messi a contatto con i pistilli e i fiori di loto per diverse ore – sino a 10 con un cambio continuo dei fiori che devono essere freschi – che poi vengono filtrati e ne resta soltanto il profumo).
L’aroma agrumato si traduce nel sapore di dolcezza, con un’acidità di fondo, che poi evolve con l’abbassarsi della temperatura.
Una curiosità emerge dai corsisti: per il cupping del caffè si svolgono tre assaggi in tre tempi diversi.
Nel tè viene fatto allo stesso modo, in più momenti, per testare la resa del liquore con il calo della temperatura e avere così una valutazione completa. Il cupping inoltre viene fatto solitamente da una sola persona, per non avere interferenze per le impressioni di altri sullo stesso tè.
La conclusione nel blind tasting
Dei tè di cui si è stati dotati per il corso, una bustina conteneva una polvere misteriosa, di cui non si sapeva niente proprio per lasciare spazio ai partecipanti di mettere alla prova ciò che avevano imparato durante la lezione.
A prima vista si possono notare le foglie ridotte in polvere, che potrebbe essere siglate come Dusting, dal colore disomogeneo. In infusione, restituisce poco a livello olfattivo (con note di tabacco, fieno). In bocca, lascia le gengive ruvide.
Dopo aver affrontato con i sensi questo tè sconosciuto, l’insegnante ha svelato l’arcano: si tratta di un tè verde Sencha, di cui però non è indicata l’origine. Non si sa dunque se è stato prodotto in Giappone o in Cina (dove solitamente la selezione è meno accurata).
La sorpresa – che non era tanto sorpresa già in fase di assaggio -: è un tè commerciale, di quelli in bustina.
Esperimento riuscito: dopo l’assaggio di 3 tè di qualità, il quarto è risultato evidentemente distante dalla prime proposte. A dimostrazione che, una volta imparato e provato dei liquori di alto livello, la differenza è lampante anche per un consumatore dal palato non allenato.