MILANO – Dopo aver introdotto qui la realtà della famiglia di coltivatori in Colombia (la prima parte è qui), con una panoramica di quello che sta succedendo tra i farmers locali e alla materia prima, il racconto continua: i temi affrontati vanno dal cambiamento climatico, alle certificazioni biologiche e sul futuro per questo mercato.
Le certificazioni biologiche sono davvero vantaggiose per voi coltivatori o sono più che altro uno strumento di marketing?
“Per un’azienda è molto costoso: essere certificati come biologico aumenta il valore del caffè per un massimo del 20%, che non è tantissimo. Quindi ottenere questo riconoscimento, per me, attualmente non vale la pena. Inoltre, i parametri da soddisfare non rispecchiano spesso le condizioni effettive che si trovano nel campo, in quanto sono state fissate secondo le esigenze degli acquirenti.
Il mercato richiede queste certificazioni ma è molto difficile applicare gli stessi standard in piantagione. Si tratta di parametri che sono stati pensati per aziende agricole europee e statunitensi: le esigenze dei consumatori hanno creato la richiesta di certificazioni che però sono state stabilite negli Usa e che non funzionano nei Paesi d’origini.
Per esempio uno dei punti è la tracciabilità, una parola che però l’80% dei coltivatori non conosce neppure. Non hanno gli strumenti e i documenti necessari per raggiungerla. “
Nei Paesi consumatori, dall’altra parte della filiera, si parla spesso della digitalizzazione come una svolta rivoluzionaria anche alle origini: secondo voi, in Colombia è effettivamente così?
“E’ un tema molto complesso. Ho parlato con famiglie che non hanno neppure il cellulare. E non è possibile avere milioni di Susanna nel mondo come me ad aiutarli. In generale dobbiamo considerare che i coltivatori non hanno completato le superiori. Molte tecnologie sono pensate per i mercati occidentali e spesso non sono adattabili alle reali esigenze dei coltivatori.
Potrebbero portare in teoria dei vantaggi, ma non sono a disposizione di tutti. Molte persone rimarranno indietro, senza cellulari e internet: quest’ultimo è il primo vero passo per poter procedere alla digitalizzazione. Si tratta di un processo che sta avvenendo davvero in maniera lenta rispetto al resto del mondo come gli Stati Uniti. I più giovani che sono più pratici di questi strumenti, cercano altre opportunità.”
Hector: “In tanti non hanno gli strumenti digitali. Anche internet non è arrivato a coprire tutte le parti rurali. La tecnologia dei macchinari è piuttosto difficile da avere, non soltanto per l’agricoltura, ma per qualsiasi aspetto della vita: ancora qua tiriamo il latte a mano. Le macchine sono molto costose e quindi difficilmente un contadino potrà procurarsele, come per esempio un trattore. I giovani che imparano a usare la tecnologia difficilmente restano a lavorare nei campi, perché vanno nelle città o addirittura in altre nazioni.”
Il difficile tema legato al prezzo: avere contatti diretti con micro torrefattori aiuta ad alzarlo?
“Sì, il contatto diretto aiuta il nostro commercio. Noi siamo un caso speciale, perché abbiamo trovato in Pablo un interlocutore diretto con il tostatore in Europa. Ma in questo momento stiamo ancora costruendo una rete che si basi su meno intermediari possibili tra noi e il consumatore finale.”
Pablo: “Nell’azienda in cui lavoro, ci sono almeno 3 intermediari tra le origini e il cliente. E questa rappresenta il modello più semplice. In questo caso riesco a promuovere questo commercio come fair trade. Ma chi non ha un contatto come il mio, resterebbe isolato dal mercato. Avrebbero bisogno di entrare in una rete fatta di molti interlocutori. Normalmente i farmers non hanno contatti con i torrefattori. È raro, perché spesso si passa attraverso i green coffee traders. Questo determina un minor guadagno per i coltivatori stessi ed è il quadro più diffuso in Colombia.”
Quali sono le difficoltà maggiori dal punto di vista della logistica e di solito quanti intermediari sono necessari per spedire il vostro caffè dalla Colombia?
“Siamo attualmente in una fase di apprendimento proprio di questi meccanismi e dobbiamo capire in che modo superare le difficoltà logistiche e costruire una filiera con un numero di intermediari che sia il più basso possibile. Non è facile. Ci sono tanti passaggi da fare e documenti da riempire: non si può fare senza coinvolgere più figure.”
Mentre il cambiamento climatico? Come riuscite ad affrontare questo fenomeno?
Hector: “Il cambiamento climatico è una cosa reale che si avverte concretamente. Prima si poteva stabilire genericamente quali sarebbero stati i mesi di pioggia, mentre ora è sempre più difficile fare delle previsioni di questo tipo. Lo stesso vale per le tempeste che oggi sono più violente e fanno più danno. Abbiamo molti terreni impoveriti a causa dei classici modelli agricoli.
Ultimamente stiamo notando che altre persone copiano poco a poco il nostro modello di finca, riservando alcune aree protette per l’acqua, degli alberi, della fauna come uccelli e serpenti. Siamo stati i primi che non hanno voluto toccare neppure un albero – che di solito vengono tagliati e utilizzati – con grande sorpresa dei nostri vicini. Si chiedono il motivo e noi spieghiamo che sono importanti per l’acqua. Noi possiamo cercare di contrastare il cambiamento climatico per le prossime generazioni.”
Susanna: “Ci mancano le competenze tecniche avanzate. Quello che facciamo per la nostra finca è studiare, ottenere maggiori informazioni per migliorare le pratiche agricole. Così che possiamo diventare ancora una volta un esempio per gli altri che poi potranno replicare i nostri metodi. Siamo gli unici a non usare i pesticidi, paghiamo per tenere sotto controllo le erbacce manualmente e conservare meglio le piante. Piantiamo gli alberi, conserviamo l’acqua, trattiamo le polpe del caffè: dimostriamo che è possibile farlo in modo da convincere gli altri.
Non conosciamo molti altri strumenti per combattere il cambiamento climatico. Stiamo anche studiando delle nuove varietà che siano più resistenti all’eccesso o alla mancanza di acqua. E una volta trovate, le piantiamo nella nostra finca: lo abbiamo già provato con una varietà resistente alla Roja.”
Avete attivato strategie per rendere il lavoro nei campi ancora attraente per i giovani che si solito si allontanano dalla produzione o persino dalla Colombia?
“Penso che questo tema sia uno dei problemi più grandi del settore agricolo in questo momento nei Paesi produttori. Per questo motivo stiamo cercando di implementare nella finca in modo che sia un esempio per tutti. Un’altra strategia è offrire condizioni contrattuali migliori per garantire la sanità e la sicurezza sociale. In modo che chiunque possa vivere degnamente con un guadagno interessante ottenuto dal proprio lavoro.
La persona che si occupa per noi dell’amministrazione, arriva dalla città insieme a tutta la sua famiglia: siamo riusciti quindi ad attirarlo fin qui nel campo. Questo è un esempio meraviglioso del fatto che sia possibile invertire il processo: portiamo pazienza e gli dedichiamo il tempo necessario per insegnargli le corrette pratiche agricole. Vedendo che i campi sono un’opportunità di lavoro interessante, a sua volta racconterà agli altri cittadini che esiste una realtà concreta fuori dalla città.
Un’altra cosa da fare è pagare degli stipendi più elevati ai coltivatori. Se riesco a produrre il mio caffè come specialty e a venderlo direttamente, posso alzare un prezzo più alto e così rendo la mia piantagione sostenibile economicamente. Proponendo sul mercato invece una materia prima non differenziata, ad un costo minimo, non sono in grado di fare dei margini. In questo senso lo specialty può essere una buona opportunità di guadagno.”
“Anche se può essere un rischio – si collega Pablo – In una cooperativa ci si appoggia agli altri per produrre una materia prima di un certo livello: facciamo l’esempio di 600 farmers che trovano in Europa un buon acquirente come può essere Lavazza o Ima, interessato agli specialty coffee, allora tutto procede come previsto.
Ma cosa succede se anche soltanto uno o due farmers di questa cooperativa non seguono gli stessi standard qualitativi? Che i restanti 598, che cercano di fare qualità, soffriranno la competizione. Bisogna esser tutti convinti e agire nella stessa maniera, ma non è molto semplice muoversi tutti coordinati. E poi bisogna anche rispettare le condizioni contrattuali in ogni caso.
Ci sono tanti elementi che sono fuori controllo del contadino come il cambiamento climatico, malattie della pianta, e la qualità quindi può essere danneggiata all’improvviso. E in questo caso non si può contare sugli specialty.”
Che cosa direste agli italiani che non vogliono assolutamente pagare un espresso più di un euro?
“Si dovrebbe raccontare come nasce un espresso, il lavoro dietro che noi produttori portiamo avanti. Il caffè non è soltanto una bevanda: è una famiglia, è un progetto, un anno di coltivazione (con tre anni di processo precedenti, la selezione a mano per permettere l’esportazione di un prodotto maturo). Sono persone, tempo, sacrifici che vanno considerati. Una tazza di caffè è molto più di quello che si vede nel bar.”
Hector: “Il caffè dovrebbe costare in Italia almeno un euro e cinquanta. E dovrebbero esserci meno intermediari: del prezzo finale, la maggior parte dovrebbe andare al produttore e non all’intermediario. C’è troppa speculazione sul caffè. Se volete conservare il Pianeta, contrastare il cambiamento climatico, pagate un euro e cinquanta il caffè.”
E in conclusione, che cosa intravedete per il futuro del caffè della Colombia?
“Sono una persona molto positiva e quindi, a fronte di tutte le difficoltà che dobbiamo affrontare dalla finca al Paese, credo che il caffè è un prodotto che ha un futuro. Le persone continuano a investire in questo prodotto, perché ha alle spalle una lunga storia. Ci sono delle donne che devono tutto al caffè. Non è un business facile, ma resta il motore delle famiglie colombiane, così come lo è per noi.
Stiamo investendo tutto in questo nostro progetto, tracciando un futuro anche con la formazione di una cooperativa di specialty coffee. Ci sono dei problemi, ma stiamo lavorando per trovare delle soluzioni.”