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venerdì 22 Novembre 2024
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Convegno sul futuro del caffè, Rossella Sobrero: “Non fare storytelling sulla sostenibilità, senza dietro uno storydoing”

Il consumatore vuole trasparenza, sincerità, coerenza e questi sono sicuramente dei principi su cui costruire la campagna di comunicazione

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  • Dalla Corte
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MILANO – Dal convegno (di qui abbiamo parlato qui) organizzato dal Consorzio promozione caffè presso il Campus Simonelli Group, qui si parla di reputazione di un’azienda legata alla comunicazione: oggi si discute di sostenibilità. Ma quali termini e quali modalità sono quelli corretti? Ne ha argomentato Rossella Sobrero, Presidente di Koinètica.

I consumatori infatti sono diventati più esigenti e non vogliono soltanto un prodotto di qualità, ma anche che la azienda sia impegnata su diversi fronti: la tutela dei diritti del lavoratore e il rispetto per l’ambiente. Quanto è importante la reputazione? Perché un danno di immagine, un’attività scorretta poi producono una macchia su un’azienda, difficile da cancellare per ripristinare l’immagine corretta.
Il consumatore vuole trasparenza, sincerità, coerenza e questi sono sicuramente dei principi su cui costruire qualunque campagna di comunicazione.
Ai link seguenti, gli altri interventi (qui, qui e qui)

Rossella Sobrero, Presidente di Koinètica spiega questo concetto

E rimanda ad un’immagine specifica: quanto sia importante per un imprenditore trasformarsi da sciatore a giardiniere:
“E’ un vero piacere essere in questo splendido luogo e ringrazio Simonelli Group per averci invitato.  La sostenibilità è fatta anche di numeri, perché le parole contano, ma poi bisogna misurare i fatti. A me piace dire che viviamo in un momento che non è solo di cambiamento superficiale, ma è una vera metamorfosi. Non tutti sono d’accordo, perché si dice che la metamorfosi va nel profondo e va a modificare il modo stesso di ripresa e di comportarci.
Io invece credo che la metamorfosi sia in corso e che i mutamenti in questi ultimi anni siano stati significativi.
C’è un famoso attore tedesco morto anni fa, Ulrich Beck, che ha scritto “La metamorfosi del mondo“, in cui già affermava quanto stesse cambiando il comportamento delle persone: parliamo di un’epoca ancora precedente alla pandemia che poi è stato un forte acceleratore.
Anche nel mondo delle imprese questa metamorfosi si misura attraverso ciò che viene chiamato l’attivismo dei brand. Philip Kotler, un famoso studioso americano, che non è un attivista di greenpeace, ma una persona che ha sempre sostenuto le visioni di marketing più tradizionali, nel 2020 ha pubblicato il libro “Brand activism“. E affermava proprio questo. Ciò significa che l’attivismo dei brand non è un sogno di qualche visionario, ma è fondamentale.
La sostenibilità sta diventando quasi un pre requisito: si chiede alle aziende di dimostrare l’impegno messo in atto. Quello che è forse il fenomeno più nuovo è che si va oltre i confini aziendali. Fino a qualche anno fa anche nel report di sostenibilità, le aziende raccontavano cosa facevano per migliorare le performance sociali e ambientali, di governarnce, dentro la propria struttura.
Adesso si chiede all’impresa anche di rendere conto di cosa accade nella propria filiera. Per un settore come quello del caffè, non è una cosa da poco: per le ragioni che sappiamo, non essendo un prodotto semplice, l’attenzione alla tracciabilità, sapere da dove arriva la materia prima oppure se sono stati rispettati i diritti dei lavoratori, diventa veramente molto cruciale.
Perché, perdere la reputazione è questione di poco tempo: per costruirsene una solida ci si impiega anche anni, ma poi se anche solo un sub fornitore fa qualcosa di non corretto, ci sono delle ricadute sull’azienda madre.
Un esempio è la Nike, che ha visto il crollo del titolo in Borsa e anche del fatturato, perché non sapeva cosa stesse facendo il fornitore di un suo fornitore, che faceva cucire i palloni ai bambini nei sottoscala. Dopodiché sono stati bravi loro a recuperare, ma da lì si è capito che non ci si poteva limitare a gestire bene il proprio luogo di produzione e distribuzione, bisognava cercare di andare più in là.
Infatti il significato di gestione di una filiera sostenibile è cresciuto in questo periodo. Molti fornitori sono attenti a dimostrare al proprio cliente, spesso una grande azienda, che anche il loro comportamento è sostenibile. Alcuni chiedono un rating di sostenibilità, così il controllo della filiera sta diventando importantissimo.
Altro elemento fondamentale è la misurazione dell’impatto. Come si fa a dire di esser sostenibile, 100% green? Misurare l’impatto generato, capire che grazie al proprio comportamento qualcosa è stato modificato nella vita delle persone, nella propria filiera, nei confronti di dipendenti e clienti, c’è bisogno di numeri. La misurazione dell’impatto diventa essenziale.
Insieme a Global Compact e Asvis, organizziamo il Salone dell’innovazione sociale, abbiamo lanciato l’anno scorso il Premio impatto con qualche dubbio: abbiamo avuto 90 organizzazioni che hanno compilato un form non semplice e hanno dimostrato, numeri alla mano, come avevano generato cambiamenti.
Sessanta di queste erano imprese e 30 degli enti No Profit. Ci ha fatto pensare: perché le imprese, che in teoria sono meno obbligate ad avere un impatto sociale, sono state quelle che più hanno dichiarato di misurarlo? E’ una riflessione non da poco. Vediamo cosa succederà quest’anno: la misurazione dell’impatto è però fondamentale per il futuro.

Le imprese in una tazza di vetro: questa è una delle mie immagini preferite

E’ vero che siamo protetti dentro un’impresa, ma siamo anche sempre più oggetto dell’attenzione dei nostri steakholder, non soltanto dei consumatori più informati.
Ne dico uno fondamentale per gli investitori: se andate adesso in banca a chiedere un prestito, moltissimi Istituti chiedono un rating di sostenibilità e vanno a controllare che non sia soltanto un racconto fantasioso. Dobbiamo essere quindi sempre più sinceri, autentici, trasparenti, proprio perché gli steakholder sono più informati e alcuni di loro hanno più strumenti di conoscenza di altri.

La coerenza è essenziale. Bisogna esser molto attenti di non dichiarare cose che nella realtà poi non si fanno

Parlando di filiera, dobbiamo essere in grado di coinvolgere i nostri collaboratori, così come mi piace pensare in termini di processo condiviso, e tutti coloro che servono ad arrivare alla fine di un processo produttivo, devono condividere i principi di sostenibilità. Non soltanto perché le aziende più grandi vi buttano fuori, ma perché conviene. Dobbiamo per forza essere più sostenibili.
La comunicazione è un asset importante, ma attenzione a comunicare quello che non è del tutto vero. La comunicazione dà una serie di spunti positivi, ma deve esser il più possibile veritiera. L’eccessiva enfasi rientra tra le varie versioni del greenwashing: dire in modo enfatico quello che addirittura è un obbligo di legge. Se per la sicurezza del lavoro tu fai ciò che la legge prevede, non si può dire di investire in sicurezza sul lavoro. E’ qualcosa che si deve fare.
Facciamo attenzione a scegliere le parole e a strutturare una comunicazione fatta in modo professionale. Facciamo di meno, evitando di far parte di un rumore di fondo sulla sostenibilità. Si crea anche quello che viene chiamato sciame comunicativo: la comunicazione disintermediata a tutto e a tutti, chiunque di noi diventa comunicatore, non è per forza una cosa professionale. L’azienda deve partire poi dall’ascolto dei propri interlocutori e steakholder.
Quindi, da cacciatori a giardinieri è il mio claim da una decina di anni, facendo arrabbiare anche i miei colleghi che si occupano di pubblicità. Si sa che in una campagna si deve vedere qual è il target da colpire: io sono stufa di questo. Noi dobbiamo creare delle relazioni.

Cercare di fidelizzare un cliente costa meno che non trovare un cliente nuovo

Ma soprattutto, perché la relazione vuol dire che tra me e il mio interlocutore si crea un rapporto di confronto che mi conviene: arrivano spunti, suggerimenti. Gli utilizzatori di prodotti e servizi, sono quelli che possono più aiutare alla costruzione di un prodotto e un servizio più efficace.
Basta con la storia di colpire i bersagli. Dobbiamo entrare in relazione con le persone: la sostenibilità si basa anche sui rapporti. Quando si parla di transizione ecologica, tutti possiamo contribuire. Credo che la passione con la quale facciamo il nostro lavoro sia fondamentale e quindi prima di dire, dobbiamo fare.
Perché oggi si parla tanto di storytelling, di narrazione: detto da chi come me è fino a qualche mese fa presidente della federazione nazionale della comunicazione può suonare stonato. Ma credo che non si possa più fare troppo storytelling se dietro non c’è uno storydoing. Prima fai, poi comunichi in maniera rilevante, chiara e consapevole.

Empatia e semplicità

La semplicità è una delle mie battaglie. La comunicazione non deve stupire con gli effetti speciali: deve dire poche cose, dirle chiare, che siano sincere e comprensibili. Dobbiamo creare un rapporto empatico, perché altrimenti la mia relazione di prima, si perde.

Pericolo di greenwashing

In questo periodo aumenta chi usa la comunicazione sulla sostenibilità come leva strategica e cresce il numero di aziende che fanno in maniera consapevole o inconsapevole greenwashing in tutte le sue sfumature.
Ci può essere anche l’impresa che fa una comunicazione sbagliata, ma in modo inconsapevole: ho scritto recentemente un libro in cui parlo di peccati capitali e peccati veniali. I primi sono quelli in cui in modo deliberato, sapendolo si racconta qualcosa di non vero; i secondi dell’azienda che sull’onda dell’entusiasmo nei suoi passi nel percorso di sostenibilità, esagera nel raccontare, senza quei numeri che dimostrano che quelle cose che ha dichiarato sono vere. Quindi bisogna stare molto attenti, comunicare meno e in modo professionale, soltanto il vero.
Concludendo: è necessario un’ottica nuova. Dobbiamo creare nuovo valore per le nostre aziende e dobbiamo essere strabici. Cioè, con un occhio dobbiamo guardare al risultato a breve. Con l’altro occhio però, dobbiamo vedere nel medio e lungo termine. Senza avere una spinta al cambiamento e all’innovazione, l’impegno sulla sostenibilità non va da nessuna parte.
Crescono le aspettative: oggi si chiede a un’azienda un impegno che prima nessuno chiedeva. E soprattutto un’azione plurale: le imprese non possono risolvere tutti i problemi del mondo, non ce la farebbero e non sarebbe neppure giusto, perché le istituzioni e le pubbliche amministrazioni dovrebbero muoversi di più in termini di sostenibilità. Non scarichiamo tutto sulle imprese.
Gli enti del terzo settore, noi cittadini, dobbiamo raccontare il nostro impegno in un modo nuovo ed esser capaci di diventare ispiratori di sostenibilità. Mi piace l’idea che anche solo parlando con dei giovani, con le aziende, con dei colleghi, magari faccio scattare una piccola scintilla liberando la loro creatività, facendo capire che siamo tutti importanti e attori del cambiamento. Abbiamo gli strumenti, basta volere agire. Buon caffè a tutti.”
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