MILANO – Il percorso di espansione e inclusione di Slow Food continua spedito e stavolta arriva sino alla Val di Fiemme: l’ultimo presidio di questa organizzazione di cui abbiamo parlato più volte – anche in merito al caffè – per il suo impegno sulla qualità dei prodotti legati al territorio e alla sostenibilità, è il lupino di Anterivo.
Si tratta di un legume da bere, che trova origini lontane che vantano una tradizione molto forte che adesso riscopre anche la sua valenza economica. Storicamente ricordiamo che questo prodotto veniva tostato e macinato per ottenere un surrogato del caffè.
Slow Food, focus sui legumi
A ottenere il riconoscimento è il lupino di Anterivo, paese di quattrocento abitanti a una quarantina di chilometri a sud di Bolzano. Terreni sabbiosi, leggermente acidi, sopra la roccia di porfido e fertili solo in parte. Eppure, come si legge già nella biografia, datata 1897, del principe vescovo Johann Baptist Zwerge che ad Anterivo nacque, “nonostante la scarsità di terreno e di humus, crescono pressoché tutti i tipi di cereali e patate”.
Il merito, adesso come allora, è proprio della pianta dei lupini, una leguminosa che (come tutte le altre) è in grado di fissare a terra l’azoto, elemento fondamentale per la crescita delle coltivazioni. «Da queste parti, la pianta di lupini è stata storicamente molto utilizzata come fertilizzante naturale, perché in grado di arricchire un terreno povero di humus» conferma Adam Givani, referente dei produttori che aderiscono al Presidio del lupino di Anterivo.
E in quello stesso documento, poche righe più avanti, ecco che viene citato il lupino “dai fiori blu, noto nella zona come Caffè di Anterivo, che permette persino ai più poveri di realizzare un piccolo guadagno”.
«A metà dell’Ottocento, qui la coltivazione del lupino era molto sviluppata» spiega Angelo Carrillo, referente Slow Food del Presidio. Ogni famiglia, in ogni orto, ne aveva qualche pianta. Anche perché quella pianta era considerata una sorta di toccasana, capace di risolvere i problemi di digestione del bestiame. E, tostando i semi di lupino e poi frantumandoli in polvere da immergere in acqua calda, ecco che si poteva ottenere una bevanda con cui sopperire alla carenza di caffè, un prodotto da ricchi che in pochi potevano permettersi, soprattutto da queste parti, oltre i mille metri di quota in Val di Fiemme.
Una pianta bella, oltre che capace di far del bene al suolo
«Fino agli anni ‘50 è andata così – aggiunge Carrillo –. Poi, con la diffusione del caffè e con la progressiva industrializzazione, la coltivazione del lupino è andata perdendosi. Ad Anterivo erano rimaste solo un paio di anziane contadine a riprodurne i semi e a coltivarli nei rispettivi orti». La svolta all’inizio del nuovo millennio, grazie a un progetto europeo per lo sviluppo rurale e al lavoro di ricerca del centro di sperimentazione Agraria Laimburg, si è formato un gruppo di persone che hanno ricominciato ad appassionarsi al lupino. Da quell’esperienza è nata l’Associazione produttori caffè di lupino di Anterivo, che oggi è composta da una ventina di persone.
«C’è chi coltiva, e noi del Presidio Slow Food siamo in cinque, e chi si occupa dell’aspetto culturale, di promozione e valorizzazione» aggiunge Givani.
«I soci conferiscono i lupini raccolti, che vengono lavorati e di cui, nei negozi del paese, viene venduta la polvere» aggiunge Carrillo. La produzione è limitata – il quantitativo di granella che si ottiene, a seconda delle annate e del clima, oscilla tra uno e tre quintali – ma ad Anterivo si è creata una vera comunità del cibo. C’è il mastro torrefattore, c’è l’osteria di paese che utilizza i lupini in cucina, c’è chi con la granella affina formaggi, produce birra, dolci e naturalmente un infuso a base di grappa.
«Ma va detto chiaramente che non è un caffè», chiarisce Givani. Era e resta un suo succedaneo. Questo tuttavia non significa che la coltivazione di lupini non vada sostenuta e valorizzata: anche perché oltre a tutto il resto, ammette il produttore, la pianta è «esteticamente prestante, fa bella figura e dà felicità. In un mondo rivolto al mantenimento della biodiversità e alle pratiche colturali tradizionali, sono convinto che una varietà autoctona come la nostra avrà il suo spazio».