MILANO – Dopo avere conquistato le cucine stellate, il koji promette di cambiare per sempre anche il mondo del caffè. Questa almeno l’idea di un certo numero di torrefattori e baristi di avanguardia. Ma cos’è innanzitutto il koji, per chi non lo sapesse. Si tratta del fermento di base di alcune importanti preparazioni della cucina orientale, in particolare di quella giapponese.
Esso ha origine da due ingredienti, il riso (o l’orzo) e il fungo Aspergillus oryzae. L’unione del fungo, sotto forma di polvere, al riso (o all’orzo), produce, a determinate condizioni di umidità e calore, una muffa bianca superficiale.
Quando le spore, koji-kin, iniziano a “fiorire”, gli enzimi presenti nella muffa convertono gli zuccheri complessi, come l’amido, in zuccheri semplici.
Al koji viene solitamente aggiunto un ulteriore ingrediente (in Giappone si usa tipicamente la soia), per ottenere un prodotto finito, attraverso un secondo processo fermentativo.
Questa fermentazione “secondaria” provoca una completa trasformazione di sapore e consistenza.
Ciò che si ricava è un alimento nuovo, diverso da quello di partenza per consistenza e gusto
E che risponde al quinto sapore, quello dell’umami. In questo modo, il riso diventa sake o amazake, la soia shoyu (salsa di soia), ecc.
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