MARILISA BOMBI*
Nessuna sanzione al privato che, a seguito del bando indetto dal Comune, si aggiudica la gestione di una caffetteria ed inizia immediatamente l’attività su sollecito dell’Ente, pur non avendo ancora materialmente richiesto né ottenuto l’autorizzazione. Ciò in quanto legittimamente nello stesso può essere maturato il convincimento che con il verbale di consegna della struttura, implicitamente, non servivano più ulteriori adempimenti burocratici. E’ quanto deciso dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 2457/14, depositata il 13 maggio scorso.
Il caso
L’esercizio dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande è disciplinata dalla legge n. 287/1991, successivamente sostanzialmente modificata dal d.lgs. n. 59/2010 con il quale è stata recepita la direttiva comunitaria Servizi 2006/123/CE. Con le più recenti modifiche, al previgente sistema autorizzatorio, è stata sostituita la SCIA, segnalazione certificata di inizio attività, ex art. 19, legge n. 241/1990. Nel senso che l’esercizio legittimo dell’attività è consentito a coloro i quali dimostrano di possedere i requisiti morali e professionali prescritti, oltre alla dimostrazione che i locali interessati sono a norma per quanto riguarda gli aspetti edilizi, urbanistici ed in materia di sicurezza sul lavoro. Unica eccezione alla liberalizzazione disposta dal legislatore, l’apertura di esercizi pubblici all’interno delle aree che il Comune ha deciso di tutelare perché di particolare interesse storico, architettonico e per altre particolari motivazioni legate ai cosiddetti motivi imperativi di interesse pubblico, così come individuati dall’art. 8 del sopraindicato d.lgs. n. 59/2010. La sentenza n. 2457/2014 del Consiglio di Stato pone, in questo nuovo quadro giuridico, alcuni interessanti elementi di novità non soltanto perché viene chiamato in causa il principio di affidamento del privato, e allo stesso assegnato maggior peso rispetto la rigida e formale osservanza della legge, ma anche sopratutto perché consente una intrigante lettura delle più recenti disposizioni in materia di semplificazione amministrativa che dovrebbe indurre la PA ad una maggior attenzione alla sostanza piuttosto che alla forma. Il fatto. Ai fini della partecipazione ad una gara per l’affidamento della gestione del servizio di caffetteria presso il Belvedere sito in un Comune, l’impresa che, successivamente, era stata ritenuta aggiudicataria della gara stessa, aveva dichiarato e documentato il possesso dei requisiti di capacità economica e tecnica prescritti dal capitolato, tra i quali quello dell’essere «in possesso dei requisiti per ottenere l’autorizzazione per la somministrazione di alimenti e bevande e le necessarie iscrizioni alla Camera di Commercio e quant’altro necessario per poter esercitare l’oggetto della concessione». Ed era stata giudicata dal Comune effettivamente in possesso di tali requisiti, tanto da risultare aggiudicataria. Dopo l’aggiudicazione della concessione, e nelle more della stipula del relativo contratto, l’Amministrazione comunale ed il legale rappresentante della società, sottoscrivevano un processo verbale di consegna dei locali interessati (vistato dal dirigente responsabile del procedimento di gara). Tanto sull’impulso dell’esigenza «urgente ed indifferibile di garantire il servizio caffetteria presso il complesso monumentale Belvedere di S. Leucio», e sulla premessa che «l’aggiudicataria del servizio si è dichiarata disponibile (…) ad iniziare l’attività di gestione». La gestione del servizio da parte della ricorrente prendeva dunque avvio dalla data del citato verbale. E mai sarebbe stata contestata alla società la carenza dell’autorizzazione amministrativa prima dell’adozione degli atti impugnati, sopraggiunti solo ad oltre due anni di distanza. I controlli della Polizia locale ed il punto di vista del Comune. Sulla base di questi elementi il Giudice di primo grado, aveva ritenuto che il Comune, affidando concretamente all’aggiudicataria i locali del servizio di caffetteria, dopo aver preteso in occasione della gara che i concorrenti si dimostrassero «in possesso dei requisiti per ottenere l’autorizzazione per la somministrazione di alimenti e bevande e le necessarie iscrizioni alla Camera di Commercio e quant’altro necessario per poter esercitare l’oggetto della concessione», avesse con ciò accordato implicitamente alla società anche l’autorizzazione amministrativa all’esercizio della caffetteria, titolo del quale anni dopo aveva invece contestato la carenza. Questa interpretazione del Tar non è stata condivisa dall’Ente interessato, il quale ha negato che un’autorizzazione fosse stata a suo tempo implicitamente conferita. In pratica, l’Amministrazione ha messo in discussione l’esistenza del necessario collegamento biunivoco ed esclusivo che sarebbe dovuto esistere tra il controverso atto implicito ed il suo atto presupponente, e che avrebbe dovuto configurare il primo come conseguenza necessitata del secondo. A tale proposito, il Comune interessato, ha rilevato che il bando della gara a monte stabiliva espressamente che «l’aggiudicatario gestirà la caffetteria … munendosi di tutte le autorizzazioni, i permessi, nulla-osta etc., ed osservando le prescrizioni di legge»; e, analogamente, disponeva che «al fine di esercitare il servizio di gestione della caffetteria … il concessionario avrà l’onere di acquisire le autorizzazioni amministrative necessarie allo svolgimento delle attività previste nella concessione». Prescrizioni che non avrebbero permesso di ravvisare nella condotta tenuta dall’Amministrazione l’implicito conferimento di un’autorizzazione. Ma il Collegio ha respinto tali considerazioni, con ciò condividendo la motivazione della sentenza del Giudice di primo grado. Se è vero, infatti, ha affermato, che la lex specialis della procedura a monte indubbiamente richiamava i concorrenti alla necessità di possedere tutte le autorizzazioni, i permessi, nulla-osta etc., e di osservare le prescrizioni di legge, attinenti alle attività previste nella concessione, è altrettanto vero, tuttavia, che le concorrenti erano state richieste dalla stessa legge di gara di dimostrare di essere già in possesso dei requisiti per ottenere l’autorizzazione per la somministrazione di alimenti e bevande e le necessarie iscrizioni alla Camera di Commercio, e quant’altro necessario per poter esercitare l’oggetto della concessione. Requisiti la cui titolarità da parte della ditta aggiudicataria avrebbe potuto reputarsi quindi già accertata. Pur tenendosi conto, pertanto, degli elementi che l’appello comunale ha segnalato, i contenuti della lex specialis non cessano di delineare un quadro complessivo che si è presentato, come minimo, equivoco ed ingannatorio per il privato. Laddove del tutto univoco è poi il comportamento successivo tenuto dall’Amministrazione, che, come si è detto, nelle more della stipula del contratto aveva preso l’iniziativa di addivenire senz’altro, poco dopo, alla consegna dei locali, in nome dell’esigenza “urgente ed indifferibile di garantire il servizio caffetteria presso il complesso monumentale” del Belvedere, sì da determinare l’immediato avvio dell’attività di somministrazione. E poiché, come la stessa Amministrazione aveva convenuto, ai relativi fini occorreva che la società fosse munita anche dell’autorizzazione comunale alla somministrazione ai sensi della legge n. 287/1991, non può non ritenersi implicito nella condotta complessiva del Comune, debitamente interpretata secondo buona fede, anche il conferimento del relativo titolo (del quale erano stati del resto già accertati i requisiti), come condivisibilmente deciso dal T.A.R.. Il Collegio ha infine affermato che, nel caso in questione, (non considerato dal Tar) c’è stata violazione del legittimo affidamento che la vicenda nel suo insieme occorsa aveva consolidato nel privato. A tale proposito, ha osservato, infatti, l’attività della ricorrente, avviata subito dopo la redazione del verbale più volte menzionato, suggellante il comportamento concludente dell’Amministrazione, si era dipanata lungo l’arco di più di due anni durante i quali erano esistiti continui rapporti tra le parti, senza che l’Ente segnalasse mai la necessità, da parte della società, di qualsivoglia ulteriore autorizzazione, assenso o segnalazione.