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Ecco come, già nel 2014, la californiana Blue Bottle era considerata la Apple del caffè

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MILANO — Fece sensazione, nel settembre di due anni fa, l’acquisizione della californiana Blue Bottle da parte di Nestlé. Un’operazione costata alla multinazionale svizzera quasi mezzo miliardo di dollari, che indicammo già allora come un esempio paradigmatico delle nuove strategie attuate dai colossi del mercato globale del caffè.

Al raffinato torrefattore americano, che ha tra i suoi finanziatori personaggi del calibro del leader degli U2 Bono, di Evan Williams (cofondatore di Twitter) e Kevin Systrom (cofondatore di Instagram), Il Post dedico nel 2014 un’interessante analisi a firma di Will Oremus, che paragonava Blue Bottle ad Apple. Ve la riproponiamo oggi, in quanto ancora interessante e attuale.

di Will Oremus

Vi ricordate quando Starbucks era fico? Aprì a Seattle negli anni Settanta come una torrefazione locale attenta alle specialità, un’alternativa alla moda rispetto alla generica brodaglia che bevevano tutti. Poi l’ex dipendente Howard Schultz la comprò nel 1987, e con l’aiuto di alcuni investitori intraprese un’ambiziosa espansione nazionale. Starbucks conquistò il paese e poi il mondo, trasformando il caffè in America da un prodotto a un’ossessione.

Ma il prezzo della conquista è diventare riconoscibili. Ciò che un tempo era nuovo – l’arredamento accogliente, la musica tranquilla, il gergo finto italiano – è diventato banale. Oggi gli estimatori del caffè snifferebbero del Nescafé piuttosto che mettere piede in uno Starbucks.

La loro ricerca di una tazzina migliore ha fatto nascere una nuova messe di torrefazioni la cui riverenza per il caffè confina con il religioso. “Stumptown” di Portland, in Oregon, “Intelligentsia” di Chicago e “Counter Culture” di Durham, North Carolina, non vendono solo “tostatura chiara” e “tostatura scura”. Vendono caffè come l’Indonesia Sulawesi Toarco Toraja, prodotto da piccoli agricoltori di cui si possono vedere le facce sul sito di Stumptown.

I chicchi arrivano con qualifiche come “commercio equo”, “unica origine” e “cresciuto all’ombra”, e hanno “profili del gusto” che farebbero arrossire Robert Parker. Sono tostati e preparati con attenzione ossessiva a dettagli come la percentuale di estrazione e il rapporto di fermentazione, che sono ottimizzati separatamente in modo da tirar fuori il massimo da ogni chicco.

La domanda che si fanno ora gli investitori è: la “terza ondata” del caffè può produrre un suo Starbucks?

Un gruppo di investitori, grossi nomi del settore tecnologico della Bay Area – tra cui Kevin Systrom di Instagram, il cofondatore di Twitter Ev Williams, quello di Flickr Caterina Fake e società di investimenti come Google Ventures e True Ventures – pensano che sia possibile.

Negli ultimi anni stanno versando decine di milioni in uno dei progetti favoriti, che potrebbe essere come Apple per Starbucks-Microsoft.

Si chiama Blue Bottle ed è la creazione di un ex clarinettista di nome James Freeman. Ricorda che, quando era un fanatico del caffè a San Francisco dieci anni fa, era quasi impossibile trovare una tazzina di caffè tostato nel modo che voleva lui – cioè con un tocco leggero, per sprigionare meglio gli aromi naturali dei chicchi.

Gli estimatori della città erano entusiasti della varietà scura, oleosa e pesante come una pressa fornita da Peet’s, un contemporaneo di Starbucks. Ispirato dai tradizionali locali giapponesi in cui i baristi fanno a mano l’infuso di ogni faticosa tazzina, Freeman aprì nel 2005 un piccolo chiosco chiamato Blue Bottle, nel quartiere cittadino di Hayes Valley.

Creò rapidamente una clientela molto affezionata

Nel 2009 Freeman aveva aperto una caffetteria più grande in Mint Plaza e una bancarella al Ferry Building, la risposta di San Francisco al Pike Place Market di Seattle. Nel 2010 si allargò a New York e ora è arrivato a tredici filiali.

Il suo metodo può ispirarsi al Giappone, ma l’estetica raffinata di Blue Bottle ha anche una forte aria di Cupertino. Le parole “Blue Bottle” e “caffè” non sono stampate in grandi manifesti fuori dalle caffetterie della società. Gran parte di esse sono segnalate solo con la semplice decorazione di una bottiglia blu, che non grida “caffè” al passante medio non più di quanto la silhouette di una mela proclami “computer”. Di conseguenza, anche solo entrare dentro ti fa sentire di saperla lunga.

L’esclusività non era un’intenzione, mi dice Freeman

È solo che a lui non piace gridare. «Sono decisamente laico, ma c’è una citazione che mi piace, attribuita spesso a San Francesco, che dice: “Predicate il Vangelo, e se è proprio necessario usate le parole”».

Al contrario dell’uniformità aziendale degli Starbucks, ogni caffetteria è unica come un fiocco di neve. Il suo aspetto è cucito addosso alle particolarità del palazzo che la ospita. Ma l’attenzione è decisamente sul caffè: non c’è Wi-Fi né prese di corrente né offerte speciali sui CD di Sarah McLachlan.

I sedili sono storti, scarsi e spartani; le opzioni sul menù sono relativamente semplici. Non si trovano caffelatte alla torte di zucca, caffè alla ciliegia o qualsiasi altra tipologia di caffè che non sappia di caffè. Né viene chiesto di scegliere tra “alto”, “grande” o “venti”. Al Blue Bottle, un cappuccino è un cappuccino e viene servito in quantità da cappuccino.

Quello che non viene servito, di solito, è una tazza da asporto

Freeman è convinto che bere un espresso in un recipiente di carta risulti in una esperienza di qualità inferiore.

Nonostante il minimalismo, però, l’effetto che fa Blue Bottle è in qualche modo caldo e accogliente. Come Apple, Blue Bottle si basa sul principio che la migliore esperienza per il cliente sia quella in cui tutte le decisioni difficili sia state prese – e correttamente – in anticipo. Per parafrasare Steve Jobs, la gente non sa che cosa vuole da un cappuccino fino a che non sei tu a servirlo loro.

E quindi, come si viene a sapere di un Blue Bottle nel quartiere?

Beh, alle ore di punta della caffeina, ci sono file che escono dalla porta come fuori da un Apple Store la mattina del lancio di un nuovo iPhone. È quello che ha attratto per la prima volta Bryan Meehan, l’imprenditore della catena di negozi biologici Fresh & Wild, alla caffetteria di Blue Bottle a Ferry Building.

«Sono stato attirato dentro per prima cosa da quanto erano lunghe le code, e poi da quanto fosse buono il caffè» – mi dice Meehan – «e poi anche da quanto fosse discreta la marca… I sacchetti sono tutti riciclabili, il caffè per la maggior parte biologico, ma sembrano non aver la necessità di comunicarlo. È un nuovo modo di promuovere i propri valori, semplicemente vivendoli».

Meehan rimase così colpito che fece in modo da incontrare Freeman per chiedergli se volesse coinvolgere qualche investitore per aiutarlo a espandersi. Quando Freeman acconsentì, Meehan si rivolse al suo amico Tony Conrad, il fondatore di About.me e un socio nella nascente società di investimenti True Ventures di San Francisco. Il progetto di Freeman entusiasmò anche Conrad e i suoi soci furono ugualmente convinti. In poco tempo True Ventures stava considerando di investire in Blue Bottle.

Le società di venture capital non sono pensate per investire in caffetterie

Il concetto di venture capital nacque nella Silicon Valley degli anni Sessanta e Settanta come uno strumento per finanziare le società di semiconduttori durante le costose fasi di ricerca e sviluppo, in modo che potessero realizzare un giorno enormi profitti attraverso la rivoluzione dei computer. Nel corso dei decenni, le società di venture capital hanno ampliato i loro interessi fino a includere tutte le società che si basano sulla tecnologia o Internet per crescere più rapidamente di quanto possibile per le imprese più tradizionali.

Ma è solo negli ultimi cinque anni che qualcuna di loro ha cominciato a rischiare nel regno della vendita al dettaglio, dei ristoranti e delle società delle bevande. E quegli investimenti restano controversi.

Andrew Parker, un socio nella società di venture capital Spark Capital con sede a Boston, mi ha detto che la sua società ha investito nel produttore di occhiali Warby Parker perché «è nata online e usa negozi al dettaglio più come uno strumento di marketing e di esposizione che come un canale di distribuzione». Ma non riesce a immaginare di mettere i soldi degli investitori del settore tecnologico in un’impresa come Blue Bottle, a prescindere da quanto sia buono il suo caffè. Detto questo, ha aggiunto Parker, «ogni buona società di venture capital sa quando è il caso di infrangere le regole, se è il caso».

Per Conrad e True Ventures, valeva la pena infrangere le regole per Blue Bottle

Non importa che i suoi affari non siano legati a Internet (finora). Come investitore, Conrad ha trovato irresistibile la sensibilità di Freeman. «Quando ho chiuso gli occhi e ho pensato alle cose che erano importanti per James, non erano dissimili da quelle che ho imparato a riconoscere in quelli che chiamerò “fondatori di movimenti” – ha detto Conrad – James aveva un progetto molto simile a come Matt Mullenweg [co-fondatore di WordPress] aveva un progetto per rendere più democratica la voce della gente. Caterina Fake a Flickr, Kevin Systrom a Instagram… sono rari, ma quando li incontri li riconosci.»

Finanziata da una parata di stelle

Nell’ottobre 2012, True Ventures si è unita a Meehan e ad altri per guidare un’iniziativa di finanziamento da 20 milioni di dollari che coinvolgeva anche una lista di famose star dei social media, come Systrom, Fake, Dave Morin di Path, Ev Williams e Biz Stone di Twitter. A gennaio 2014, una seconda iniziativa per Blue Bottle che aveva l’obbiettivo di raccogliere la somma di 26 milioni di dollari coinvolgeva Google Ventures, Morgan Stanley e lo skateboarder Tony Hawk.

Che la comunità tecnologica abbia abbracciato Blue Bottle ha causato qualche perplessità

«Blue Bottle sta ottenendo 25 milioni di dollari perché fa un caffè piuttosto buono, che casualmente si trova a due passi dalle imprese di tecnologia», ha scritto sarcasticamente il giornalista economico Kevin Roose. Sicuramente la vicinanza della società a Sand Hill Road non gli ha fatto del male. Ma anche i concorrenti della terza ondata, come Stumptown e Intelligentsia, hanno ricevuto grandi investimenti, anche se da fonti più tradizionali. Nel frattempo, catene del settore alimentare come Sweetgreen, Potbelly e Pinkberry hanno preso la strada del venture capital, le ultime due con il sostegno di una società di Seattle di nome Maveron – il cui co-fondatore Howard Schultz è anche l’amministratore delegato di Starbucks.

Start-up e venture capital non soltanto per l’High Tech

L’insegnamento più profondo qui potrebbe essere: concetti come start-up e venture capital non sono più il terreno esclusivo dell’industria ad alta tecnologia. Mentre una quantità sempre maggiore di soldi dalle società di venture capital cerca il prossimo grande successo, gli investitori con la mente più aperta stanno cominciando a capire che i finanziamenti più intelligenti potrebbero non essere più sulle società di social media che dipendono dalla pubblicità, men che meno sui conduttori.

«Non avremo mai un risultato come quello di WhatsApp con Blue Bottle» – ammette Conrad – «ma non avremo neppure un rischio di fallimento tra il 40 e l’80 per cento che si vede negli investimenti tecnologici».

Gli investitori riconoscono anche che la stessa tecnologia non è più una categoria così netta com’era una volta

Chiamiamo Amazon una società tecnologia, ma lo è davvero? Come decidiamo quali sono le società Internet quando tutte le aziende sono su Internet? Fino a oggi l’espansione di Blue Bottle si è concentrata su caffetterie di mattoni, ma è assolutamente possibile che la sua maggiore crescita futura venga dalla vendita di caffè online, attraverso l’agile sito ridisegnato con l’aiuto di Google Ventures. Nel frattempo, ha cominciato a vendere versioni da asporto del suo caffè freddo in stile New Orleans con la catena Whole Foods.

Meehan e Freeman direbbero che la loro priorità è assicurarsi che Blue Bottle non si espanda così velocemente da perdere quello che l’ha resa così amata. «La domanda che continuano a farmi è “come farai a non mandare in vacca tutto questo?”» dice Freeman ridendo.

«E la domanda è, “Non lo so!”». Ma in concreto, insiste Freeman, il suo obbiettivo non è mantenere costante la qualità – è continuare a migliorarla, anche se questo vuol dire crescere più lentamente di quanto farebbe in altro modo. Meehan dice che lui e i suoi soci investitori sono d’accordo.

Nemmeno Starbucks ha mai progettato di diventare grande come Starbucks

Fino ad ora, Blue Bottle ha usato i suoi soldi attentamente, espandendosi in poche città come Los Angeles e New York, e allo stesso tempo aggiungendo fornitori e torrefazioni per migliorare il prodotto. Ispirandosi a Starbucks, sta anche aumentando gli stipendi dei suoi baristi e dando stock option ad alcuni dipendenti.

«Se arriva Intelligentsia, apre 25 negozi a Chicago e diventa l’evidente leader del mercato, noi non ci preoccupiamo» dice Meehan. «Non cambieremo in alcun modo il processo con cui facciamo il nostro caffè».

Questa dedizione, che sembra avere come conseguenza inevitabile lunghi tempi di attesa alle ore di punta, potrebbe voler dire che Blue Bottle non diventerà mai così grande o ubiquo come Starbucks e che non lo supererà mai come Apple ha eclissato Microsoft. Ma di nuovo: neppure Starbucks ha mai progettato di diventare grande come Starbucks.

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