MILANO – Come si riconosce, al bar, un buon caffè? Dal gusto il più possibile armonico, dove non siano presenti eccessivamente i sentori di legno bruciato, e dove l’acido lattico e l’acido clorogenico siano neutralizzati da un sapiente uso della macchina per espresso.
Parola di Eddy Righi, di Riccione, guru del caffè, vice campione italiano baristi 2013/2014, che ha tenuto una lezione sul caffè a Torino, al bar dell’Editrice La Stampa, una Kermesse organizzata da Dm Italia e Costadoro, con la collaborazione di Ascom e Forter Piemonte.
Il Righy pensiero è il seguente: “In Italia si diminuendo il consumo di caffè. La “modalità espresso” non basta più. Se vogliamo avvicinare i giovani a questa bevanda dobbiamo iniziare a proporre anche nel nostro Paese il filter coffe, che si beve più lentamente e che tiene compagnia e dove si colgono meglio le migliaia di aromi estratti dall’acqua”.
Sarà, ma nel frattempo è meglio insegnare alla gente a distinguere tra un caffè pessimo e un buon caffè, espresso, naturalmente, come nella migliore tradizione nazionale, anche se, nel mondo solo il 10 per cento consuma caffè in questo modo.
“Il caffè va macinato al momento. Oltre i 15 minuti gli aromi sono finiti tutti nell’aria e non finiranno nell’acqua. Poi va schiacciato in modo assolutamente uniforme nel filtro e infine va estratto nel modo giusto. Si fa partire la macchina e poi si mette la tazzina e si guarda il colore tenendo presente che, anche con le migliori intenzioni, soltanto il 30 per cento delle componenti aromatiche passerà nella tazzina e il 70 per cento rimarrà inestratto. Per un espresso al bar, una percentuale tra il 18 e il 22 per cento di aromi estratti va già benissimo”.
La difficoltà sta nel fare passare l’acqua in modo uniforme e per il tempo strettamente necessario nella polvere composta da oltre 3500 briciole per chicco macinato.
Anche per ottenere la giusta dose di caffeina.
“La caffeina è un alcaloide che viene estratto con il calore. Un caffè ristretto ha poca caffeina perché il flusso è stato interrotto proprio mentre iniziava la sua estrazione”.
Il tempo giusto di scorrimento dell’acqua (a 90-96 gradi) è dai 20 ai 30 secondi. Il risultato è un caffè dai 20 ai 30 cc in tazza. Nella prima parte dell’estrazione si trasferiscono in tazza gli aromi, i grassi (che danno la crema), gli zuccheri e le proteine. Nella seconda parte la caffeina e una certa dose di acidi.
“Oltre i 30 secondi la tazza contiene troppi acidi, acido lattico che dà mal di stomaco, e acido clorogenico che dà astringenza. Pertanto non è consigliabile un caffè lasciato troppo tempo in macchina”.
Il caffè prima si annusa alla tazza e poi si degusta. Ma stiamo sicuri che difficilmente troveremo davvero sempre lo stesso gusto.
Anzi, è impossibile.
Al mondo ci sono moltissime variabili commerciali delle tre varietà storicamente più coltivate: Arabica, Robusta e Liberica, tutte originarie dell’Africa. Ma al di là delle differenze varietali il caffè non è quasi mai lo stesso. Ogni partita di caffè è diversa dall’altra, anche se arriva dalla stessa area di produzione.
“La stessa varietà – spiega Eddy Righi – coltivata a quote diverse, con tempi diversi di maturazione, presenterà, alla raccolta, differenti qualità organolettiche. Un caffè del Costarica che cresce a 1900 metri matura più lentamente di un caffè coltivato in Brasile a 600 metri. Con l’altitudine, la pianta sviluppa maggiori protezioni contro gli sbalzi termici che si trasformano in percentuali maggiori di grassi, oltre che di zuccheri e proteine. E poi, i 1900 metri del Costarica non sono quelli dell’Etiopia dove si è più vicini all’equatore e fa decisamente più caldo. Così come tra i due Paesi c’è una grande differenza di umidità: in Costarica, per esempio, al pomeriggio piove quasi sempre nel periodo di maturazione”.
Poi ci sono i diversi metodi di raccolta, più o meno selettivi, e i differenti sistemi di processatura per arrivare al chicco puro, pronto da tostare.
Poi c’è la macinatura, più grossolana (dove l’acqua non ha il tempo di estrarre gli aromi) o più fine. Inoltre, ci sono le acque di acquedotto, che cambiano in ogni località italiana (l’acqua deve comunque essere di media durezza).
E soprattutto c’è la manutenzione e la cura del barista verso i suoi strumenti di lavoro.
“Un macinino va pulito tutte le sere. Non si devono lasciare tracce di oli a irrancidire nel cono. Si deve eliminare ogni sera il macinato nel dosatore per usarlo, magari, per fare i primi due caffè della mattina successiva, che vanno buttati via. I denti del macinino vanno sempre puliti. La temperatura delle tazze deve essere di 65 gradi e nei filtri non deve mai rimanere residuo del caffè precedente: si puliscono sempre con uno straccio che deve essere a portata di mano del barista”.
Ma, anche se fatto a regola d’arte capita che le miscele di caffè possano essere composte da “gusti caratteristici” davvero diversi. E che questi gusti non possano nemmeno essere miscelati armonicamente tra loro.
“Che garanzie abbiamo che da un sacco di chicchi di caffè miscelati che arriva dal Brasile, vengano fuori pacchi di chicchi tostati con l’omogeneità dichiarata? Come facciamo a dire che i chicchi di quella varietà o di quella zona finiscano con le stesse proporzioni nel nostro macinacaffè?”. E poi c’è la densità del macinato che cambia con l’umidità esterna. Al mattino è più leggere, alla sera più compatta. E se piove, cambia tutto.
Anche per questo, ogni tazzina può essere davvero diversa dalle altre. “Sta alla bravura del barista arrivare ad un accettabile livello di compromesso, a una media di qualità da cercare di mantenere per tutta la giornata. Ricordate che basta una sola tazzina sbagliata per perde