MILANO – Prendersi una laurea non è più un traguardo che fa davvero la differenza una volta entrati nel mercato del lavoro. Tanti anni e tanti soldi investiti soprattutto quando si parla del sistema formativo americano, per avere un attestato che poi non avrà praticamente valore per le aziende: le competenze e l’esperienza non vengono ben coltivate nelle università.
di Massimo Mucchetti
Laurea: serve ancora o è uno spreco di soldi?
L’ inizio dell’anno scolastico ripropone un’ antica domanda: a che cosa serve studiare? Certamente, serve a diventare esseri umani e cittadini più consapevoli. Tanto dovrebbe bastare. Ma fino all’ altro ieri diplomi e lauree garantivano anche un buon lavoro. E così il dibattito politico sul finanziamento dell’ istruzione si divideva tra chi lo voleva affidato alla spesa pubblica e chi avrebbe preferito il modello degli Usa, dove gli studenti si fanno anticipare dalla banca i denari necessari per rette universitarie, libri e sopravvivenza e restituiscono questi prestiti d’ onore non appena trovano lavoro. La Grande Crisi ha relegato in secondo piano quel dibattito e ora ripropone in termini radicali l’ antica domanda. Negli Usa, una legione di laureati non riesce più a rimborsare i prestiti ricevuti da studente.
Le banche lamentano insolvenze per oltre mille miliardi di dollari. L’ ascensore sociale azionato dall’ istruzione è fermo.
Il perché è presto detto: la globalizzazione brucia milioni di funzioni produttive ieri destinate a chi ha una laurea
Si ricorre ai Paesi emergenti acculturati. In California dilagano, per esempio, le polizze sanitarie scontate se si accettano cure praticate in India. L’ Italia, si dirà, è diversa. Qui l’ istruzione, fino alle medie superiori, è pressoché gratuita. Le rette universitarie sono basse. Ma i costi non scompaiono se a pagarli è lo Stato, alimentato dalla fiscalità generale. Per capirci, facciamo due conti prendendo come base i costi di formazione di un medico all’ università del San Raffaele, un ateneo privato di Milano. Se si considerano retta, libri, affitto di una stanza in un appartamento condiviso con altri studenti, abbonamento ai mezzi pubblici, costi di sostentamento in una città diversa da quella di origine, avremo una spesa annuale di 22-25 mila euro. Il corso di laurea dura 6 anni, un altro anno se ne va in tirocinio, esame di Stato e ammissione alla specialità, la quale prende, a sua volta, un quinquennio. Ebbene, si moltiplichino per 7 le spese annuali, vi si aggiunga gli interessi su questi denari e si tolga pure il salario di un mese di lavoro estivo ogni anno. Sulla cifra che ne risulta, si applichino altri 5 anni di interessi, perché durante il periodo di specializzazione il neomedico riceve un sussidio che gli consente di vivere (parcamente) ma non certo di rimborsare alcunché,
Alla fine, a 30-31 anni, carico di studi e di esperienze, il neomedico avrà accumulato un costo di formazione pari ad almeno 200 mila euro
Se si è fatto prestare i soldi da una banca (ammesso che la trovi) e la volesse rimborsare in 10 anni a un tasso del 7% (buono per un prestito senza garanzie), il neomedico dovrebbe versare una rata mensile di 2.300 euro. Dovrebbe dunque avere subito un salario di almeno 3.500-4.000 euro netti. Onestamente improbabile. Si obietterà: invece del San Raffaele c’ è la Statale, dove la retta è inferiore.
di Massimo Mucchetti
Bene, ma come sappiamo il conto non cambia se a concorrere alla sua copertura è lo Stato. E allora qual è il senso economico di studiare se è più conveniente aprire un bar? E qual è il destino di una società dove il mercato genera simili incentivi? mmucchetti@rcs.it Il commento di Massimo Mucchetti è uscito sul Corriere della Sera di sabato 15 settembre. Chi volesse commentare su Comunicaffè può scrivere a info@comunicaffe.com . L’e-mail dell’autore è riportato al termine del suo articolo.