NAPOLI – Un periodo poetico a cui alcuni vorrebbero tornare nostalgicamente è la Belle Epoque: dove tutto sembrava ispirato e fonte di creazione artistica, e in cui si viveva di incontri. Uno di questi luoghi di scambio è stato proprio lo storico Caffè Gambrinus, che in questi giorni ha dovuto chiudere di fronte al nemico invisibile del virus e che in passato ha fatto la differenza per molti intellettuali italiani e internazionali. Leggiamo la storia dall’articolo su ilmeridiano.com.
Belle Epoque: a Napoli si viveva al Gambrinus
Le splendide pagine di Giovanni Artieri sul ruolo che svolse il Gran Caffè “Gambrinus” tra il 1880 e il 1915, gli anni della “Belle ‘Epoque”. Il Gran Caffè era il luogo di incontro di poeti, scrittori, pittori, molti dei quali ne decorarono con i loro dipinti le pareti. Al mito del “Gambrinus” contribuirono, tra gli altri, Croce, Scarpetta, D’Annunzio, Libero Bovio, Ferdinando Russo e anche Salvatore Di Giacomo, quando dalla birreria “ Strasburgo” si trasferì, con Vincenzo Migliaro, nel Gran Caffè di piazza San Ferdinando. Perché il “Gambrinus” venne chiuso nel 1938 dal prefetto di Napoli.
Nel volume “Napoli nobilissima” Giovanni Artieri dedicò splendide pagine al ruolo che il Gran Caffè “Gambrinus” aveva svolto a Napoli negli anni della “Belle ‘Epoque”
Queste pagine Artieri le scrisse nel 1954: il Gran Caffè non esisteva più a piazza San Ferdinando: era stato chiuso nel 1938 dal prefetto Giovanni Battista Marziali, il quale comunicò a Mussolini che il “Gambrinus” era un ritrovo di antifascisti. In realtà, scrisse Artieri, il prefetto soffriva di insonnia e di notte gli davano fastidio i rumori, le voci e la musica che salivano verso il suo appartamento dalle sale del Caffè. Dissero le malelingue che a far chiudere il “Gambrinus” era stata la moglie del prefetto, perché il chiasso degli avventori disturbava i suoi incontri e le sue partite a carte con le amiche.
Le sale del Gran Caffè vennero occupate da un agenzia bancaria, e solo agli inizi degli anni ’70 vi ritornò il “Gambrinus”. Negli anni delle “Belle ‘Epoque” il Gran Caffè di Piazza San Ferdinando fu il palcoscenico di Marcello Orilia, il dandy, l’ “arbitro dell’eleganza” che dettava legge in materia di raffinatezza e di buon gusto anche a Parigi e a Londra e non solo per i “modi”, per gli abiti, per le camicie e le cravatte, ma anche per le carrozze e per il “tiro” dei cavalli, i più famosi di Napoli con i purosangue inglesi del duca di Bovino e con gli “arabi” del principe di Sirignano.
Anche nel quadro di Carlo Brancaccio, che correda l’articolo, il “Gambrinus” è, tra il 1880 e il 1914, gli anni dell’”Epoca Bella”, il “luogo” dell’alta borghesia napoletana. Nelle sale del Gran Caffè, che, come scrisse un giornalista de “La Tavola Rontonda”, sembrava piuttosto un museo, si incontravano intellettuali, pittori, musicisti, poeti e filosofi, Benedetto Croce, Scarpetta, Ferdinando Russo, Di Giacomo, Scarfoglio, Roberto Bracco, Ernesto Murolo, accolti dal proprietario, Raffaele Vocca, che nel 1880 aveva aperto il locale, e da Antonio Curri, il geniale architetto che, dopo aver “disegnato” e realizzato il “Gambrinus”, aveva chiesto a Migliaro, a Caprile, a Irolli, a Pratella e a Casciaro di dipingere sulle pareti “villanelle e paesaggi”.
Ricorda Artieri che da bambino si incantava a contemplare il disegno di un pino
“proteso da una campagna di Posillipo sullo specchio del mare. “ E lo guardavo, così vivo, come una donna, per la sua capigliatura nera e mi pareva di sentir nel gelato il sapore e il profumo di quel pino, fresco e amaro.”. Un tavolo “fisso” al “Gambrinus” avevano Ferdinando Russo e Libero Bovio, autori terribili di burle. Su un tavolino del Gambrinus Gabriele D’Annunzio, raccogliendo la sfida di Ferdinando Russo, scrisse di getto il testo di “’A vucchella”, poi musicato da Tosti: ma forse era un astuto “inganno”, forse quel testo il poeta l’aveva già scritto.
Anche Di Giacomo ebbe nel Gran Caffè un “suo” tavolo, come lo aveva al caffè- birreria “Strasburgo” nella piazza del Castello, tra il Maschio Angioino e i Cavalli di Bronzo. Quasi ogni sera, in quella birreria Di Giacomo e Vincenzo Migliaro mangiavano la pizza che il “pizzaiuolo ambulante” Gennarino portava nella teglia di zinco, gridando “Gennarino non dice bugie” e guardando storto gli scugnizzi che gli rispondevano: “ Dice nu cuofeno ‘e fesserie”. E quasi ogni sera il poeta era costretto a sopportare la presenza di Gennaro Testa, un avvocato che, come critico letterario del “Masaniello”, aveva stroncato, così scrisse l’Artieri, i suoi primi versi.
Di Giacomo colpì l’avvocato con un epigramma: “ Ce sta nu certo don Gennaro Testa / che addo’ arriva, s’assetta e chiacchiaréa / fa de critica e d’arte una menesta /scamazza vierze e ‘ncoppa ce passéa…”. E l’avvocato si difese attaccando con versi altrettanto aspri, in cui si diceva che il Municipio, con l’intento di risolvere il problema della fognatura, “ha stabilito di iniziar l’espurgo / dal gruppo dei poeti allo Strasburgo…”. Trasferitosi al “Gambrinus” con Vincenzo Migliaro, che subito incominciò a coprire i marmi con i suoi disegni, Di Giacomo vide il suo tavolino trasformarsi rapidamente nel luogo d’incontro dei musicisti Costa, Capurro e Gambardella, dei pittori Scoppetta, Postiglione, La Bella e Balestrieri, e dei poeti dialettali che lo riconoscevano come caposcuola: tra questi poeti c’era anche Ferdinando Russo, fino al giorno in cui un saggio di Croce sulla poesia in lingua napoletana, in cui si parlava solo del genio di Di Giacomo, offuscò l’amicizia tra i due poeti.
Al “Gambrinus” Di Giacomo incontrò anche Turiello, il suo professore di storia
Il primo che aveva capito il suo talento di poeta. Un giorno il professore lo aveva sorpreso a scrivere versi, durante la lezione di storia: letti i versi, non solo non l’aveva rimproverato, ma aveva fatto leggere la creazione dell’allievo ai suoi amici: era la prima quartina di “Nannina”, che in tutte le edizioni delle “Poesie” di Di Giacomo è il primo dei “ Suniette antiche”: “Uocchie de suonne, nire, appassiunate / ca de lu mmele la ducezza avite/ pecché cu sti guardate che facite, / vuie nu vrasiero ‘mpietto m’appicciate?”.