MILANO – Il mese scorso ho commesso un errore politicamente scorretto: ho ordinato un “caffè turco” in un bar di Ioannina, vivace città dell’Epiro, in Grecia. L’amichevole cameriere è diventato per un momento meno amichevole e ha detto: “Abbiamo solo caffè greco”, cosa che ho accettato di buon grado. Ebbene, era esattamente uguale al consueto caffè turco. Più tardi gli ho chiesto di questa sua insistenza sul caffè greco, e lui ha ribadito il concetto: “In Grecia, niente caffè turco”, accompagnandolo con un certo numero di commenti sprezzanti su chi oggi governa in Asia Minore.
Ho discusso l’episodio con diversi amici greci nel corso di un lungo pranzo pre-Quaresima a base di frutti di mare, e loro mi hanno rispiegato che la Grecia era sotto occupazione ottomana già prima del 1453, quando gli Ottomani completarono la loro conquista dell’Impero Bizantino, e vi rimase fino alla guerra d’indipendenza greca del 1821. Anche dopo l’indipendenza, il conflitto greco-turco è continuato, alimentato dall’aspirazione dei greci di far rivivere la “Grande Bisanzio” e dalla presenza di milioni di greci in Asia Minore.
Caffè greco e caffè turco: uno scontro finale e decisivo si ebbe dopo la prima guerra mondiale
Quando la Grecia tentò di prendere l’Asia Minore, che per i Turchi rappresenta il cuore della loro patria. In seguito alla sconfitta greca, milioni di greci che vivevano a Smirne (Izmir per i turchi) e in altre regioni dell’Anatolia vennero espulsi dai turchi e si riversarono in Grecia. Questa ondata di profughi, molti dei quali in possesso soltanto dei vestiti che avevano addosso, gravarono sulla già precaria situazione economica della Grecia nel primo dopo-guerra, ulteriormente peggiorata con la grande depressione mondiale.
Cinquecento anni di crudeltà, schermaglie e spargimenti di sangue culminarono in uno scontro finale disastroso. Oggi, novant’anni dopo, molti greci continuano a provare (a dir poco) avversione verso i turchi, ma entrambi fanno parte dello spazio economico e politico europeo, in cui condividono molti interessi, e vivono in pace gli uni con agli altri. Nelle foto: il “monumento” alla cuccuma finjan nel villaggio arabo-druso di Pek’in (in Alta Galilea, Israele) e, subito sotto, un pacchetto di caffè “turco” israeliano Una settimana più tardi mi trovavo da un collega palestinese e il suo assistente ci ha offerto un “caffè arabo”.
Era esattamente uguale alla bevanda turca e al caffè greco, ma chi ce lo serviva insisteva che si trattava di “caffè arabo”
Per la verità era un po’ meglio, perché avevo chiesto un po’ di hal (cardamomo), che l’assistente aveva volentieri portato in tavola e aggiunto al caffè. Mi è anche capitato di bere del “caffè egiziano” e del “caffè libanese”. In Israele siamo soliti ordinare un “turco piccolo” o un “turco grande”. Sarà, ma personalmente sono convinto che sono uguali: vengono tutti da una cuccuma finjan molto simile. Le differenze, quando ci sono, dipendono dalla bravura, dalla creatività e dal tocco finale della singola persona che lo prepara. In tutti i casi gli intenditori devono essere pazienti e lasciare che il caffè bolla diverse volte prima che sia pronto per una gradevole degustazione.
L’interpretazione della storia del caffè turco-arabo-greco è lasciata al lettore
Per quanto mi riguarda, posso dire d’averne tratto due ammaestramenti principali. 1) Le somiglianze in fatto di modo di vivere, mentalità, costumi e vita quotidiana nel Mediterraneo orientale sono innegabili, anche se le sfumature vengono enfatizzate e ci si differenzia orgogliosamente sulle definizioni.
2) Anche se cinquecento anni di uccisioni lasciano effettivamente un sedimento di “antipatia”, gli ex nemici alla fine imparano a vivere insieme, fianco a fianco. Per quanto riguarda israeliani e palestinesi, non dobbiamo per forza aspettare altri quattrocento anni tenendoci per la gola: iniziamo a bere il caffè insieme fin da adesso. Davanti a una bollente cuccuma finjan, sorseggiando un buon caffè, potremo amabilmente discutere della sua definizione.
Fonte Jerusalem Post, 4.4.13